Oleg and the Rare Arts

Oleg and the Rare Arts

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Piacevole sorpresa, nella sezione Voices dell’International Film Festival Rotterdam, si è rivelato Oleg and the Rare Arts, il documentario su Oleg Karavaichuk, grande compositore e pianista sovietico, testimone della storia del suo paese, opera del giovane filmmaker Andrés Duque.

Le armonie di Karavaichuk

Alcuni fatti biografici: Oleg Nikolaevich Karavaichuk, 89 anni, di Kiev, ha suonato il piano per Stalin da bambino prodigio, ha frequentato il Conservatorio di Leningrado, ha scritto musica per il teatro e per il cinema, per registi non allineati come Paradjanov e la Muratova. Ora rimane una figura controversa e dalla eccentrica personalità nella scena culturale russa. [sinossi]

Nel suo penultimo lavoro, il misconosciuto corto Lo sguardo di Michelangelo, Antonioni si metteva di fronte al Mosè di Michelangelo Buonarroti. Il corpo senescente e decrepito del regista novantenne opposto alla ieraticità scultorea, l’eternità dell’arte e la transitorietà della vita, la marcescibilità della carne, compresa quella degli artisti che possono raggiungere l’immortalità con le loro opere. Sono le stesse sensazioni che si provano con Oleg and the Rare Arts, il documentario del filmmaker spagnolo, di origine venezuelana, Andrés Duque, dedicato al grande musicista Oleg Karavaichuk. Opera che si è rivelata come una sorpresa positiva dell’ultimo International Film Festival Rotterdam.
Nello splendore dei corridoi dell’Ermitage, affrescati, stuccati, pieni di dipinti, compare questo omino esile, curvo, dalla flebile voce, quasi caricaturale. Si tratta di Oleg Nikolaevich Karavaichuk, 89 anni, grande compositore e pianista. Fragile, consumato dalla sua stessa arte, dalla postura al pianoforte che l’ha ingobbito, dall’energia che profonde in ogni esibizione. Lo vediamo al ristorante di fronte a un piatto che è più grande di lui. Con il tipico cappello basco francese, l’impermeabile quando è in campagna, mostra una vitalità sorprendente, anche nell’apprezzare ancora le ragazzine. Nella sua casa si trovano, sparsi, un libro di astronomia, una biografia di Lenin, un atlante dell’Asia Centrale, tra contenitori di biscotti.

Si muove a suo agio tra i corridoi lunghissimi, le stanze e i colonnati del grande museo di San Pietroburgo, Oleg, li attraversa con familiarità. L’arte non è solo il contenuto, per lui, ma anche il mezzo che contiene, o il suo veicolo. Lo vediamo subito suonare un meraviglioso pianoforte con decorazioni: è quello imperiale di Nicola II, e più avanti riferirà, in una lettera alla Regina di Spagna, di aver rifiutato di esibirsi al suo cospetto perché il pianoforte a disposizione non era all’altezza.
Andrés Duque evita qualsiasi approccio didascalico da documentario National Geographic con voce off. Lascia parlare Oleg, dandogli piena voce, sia attraverso le sue parole, i suoi monologhi, sia attraverso la musica che sgorga dalle sue mani, da cui si sprigiona una grande energia , nell’armonia dei suoi movimenti che ripete anche a vuoto, senza la tastiera. Inquadrando, durante ogni esibizione, le mani sui tasti ma anche il suo volto, la sua ispirazione. Il regista compone il film di segmenti, che comprendono momenti di esibizione musicale, intervallati da lunghe dissolvenze in nero. E include spesso nell’inquadratura anche i suoi microfoni, o momenti da making off, come quando Oleg si rivolge a quelli che lo stanno registrando, o quando invita l’operatore a cambiare lo sguardo della macchina da presa, che poi, con panoramica a schiaffo, si indirizzerà verso null’altro che il moncone di un albero tagliato. E il film finisce semplicemente con Oleg che dice “Basta”.
Nell’indirizzarsi alla Regina di Spagna viene ripresa l’immagine di Las Meninas di Velázquez, esempio supremo di meta-arte, di arte che comprende il suo farsi, come lo stesso pittore all’opera nel suo quadro, ma anche di arte di corte. E l’impressione è che sia lo stesso Oleg a prendere il sopravvento e diventare lui stesso il regista. La musica avviene da sola, come esistesse autonomamente in un limbo, a prescindere da chi l’ha composta o da chi la deve eseguire. È l’eternità dell’arte di cui sopra.

Oleg, con la sua vita e il suo racconto è un’arca russa vivente, attraversando parte della storia del paese. La sua arte si ispira alla “scarlet empress” Caterina II, con il suo grande mecenatismo; si esibisce con il piano di Nicola II e, di un brutto film biografico sull’ultimo zar, ha realizzato la colonna sonora; si è esibito da piccolo al cospetto di Stalin che ha fatto edificare, anche lui mecenate, il villaggio di artisti in mezzo alla taiga in cui tutt’ora vive, in una dacia di legno rivestita di muschio, villaggio che ha ospitato anche, tra i tanti, Tarkovsky e Šostakovič; e Oleg si è esibito anche davanti a Putin, che spiccava nelle file vip di una platea vuota, per il 250° anniversario dell’Ermitage. L’arte eterna, immutabile che rimane tale, mentre passano le epoche storiche e i regimi, che, qualsiasi essi siano, non possono che inchinarsi al suo cospetto.
Cos’è l’arte per Oleg Karavaichuk? È una pratica che si avvicina alla coltivazione della terra, che deve essere accudita e nutrita senza le forzature da serra. È un filo conduttore tra una foto della divina attrice Inna Kmit e la natura vista dalla finestra a fianco. È un substrato comune tra musica e poesia. È un qualcosa che si fonda sul contrasto cosmico tra consonanze e dissonanze, come concepita in epoca medievale. La purezza della musica, l’ascetismo di chi la suona e compone, contro l’involgarimento pornografico americano di sassofoni e tromboni. Andrés Duque, attraverso Oleg Karavaichuk realizza un’opera che va ben oltre la semplice biografia di un artista per fare fronte, con il suo sguardo, alla verità dell’arte.

Info
La scheda di Oleg and the Rare Arts sul sito del Festival di Rotterdam.
La scheda di Oleg and the Rare Arts sul sito di Andrés Duque.
Il trailer di Oleg and the Rare Arts.
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