Intervista ad Adriano Aprà
Critico, saggista, regista, attore, traduttore di Bazin e di Christian Metz, direttore di festival ed ex conservatore della Cineteca Nazionale: Adriano Aprà è una delle poche figure capaci di attraversare tutto lo scibile del cinema. Lo abbiamo incontrato per parlare con lui delle sue molteplici attività e di come veda la critica cinematografica oggi.
In un film recente, L’età d’oro, lei appare nel ruolo di se stesso e ha un feroce scambio di battute con l’assistente di un ufficio stampa che la tratta con eccessiva familiarità. Si riconosce in questo disgusto per il “circo mediatico” che ruota attorno al cinema, e in questo personaggio?
Adriano Aprà: No, non mi riconosco in quel personaggio. Anzi, poi con una bella ragazza come quella nella realtà mi sarei comportato sicuramente in modo più morbido. Ma è vero che per molti anni mi è capitato di percepire quanto apparissi eccessivamente serioso ad un occhio esterno, intimidente, cosa d’altronde che mi ha sempre sorpreso perché io sono un timido. Forse superavo la mia timidezza in maniera inconsciamente aggressiva. Quindi il personaggio di L’età d’oro può assomigliare a come mi vedono gli altri, ma non a come mi vedo io.
Forse in L’età d’oro si vuole alludere, proprio in questo personaggio di assistente dell’ufficio stampa, al filtro che, sul modello americano, si frappone sempre più tra i critici e i giornalisti e chi il cinema lo fa. Un aspetto che in passato non c’era, almeno nel nostro cinema.
Adriano Aprà: Anche se ho scritto per diverse riviste di cinema, io non ho mai fatto della critica professionale, tranne forse per un certo periodo negli anni ’90. In ogni caso i rapporti che ho avuto con i registi sono sempre stati diretti, e questo non solo in Italia, anche all’estero. Ad esempio alla fine degli anni ’70 ho lavorato negli Stati Uniti e allora per me fu semplice intervistare i registi. Telefonavo alla Directors Guild e loro mi davano i numeri di telefono. Non ho mai avuto problemi forse perché per l’appunto non appartenevo al “circo mediatico”, o magari perché mi presentavo come un critico italiano, anzi, come un critico che lavorava per un festival italiano, quello di Pesaro. Quindi evidentemente erano ben disposti. Ricordo di aver intervistato Sydney Pollack, John Milius, Richard Brooks. L’unica volta che ho avuto un problema è stato con Otto Preminger, che è stato molto scostante. Evidentemente non era una buona giornata per lui, e così dopo un po’ me ne andai. Ho intervistato anche Vincente Minnelli, anche lui persona molto cordiale. L’ho intervistato due volte, la seconda a Los Angeles a casa sua. Fu per me memorabile poi l’intervista che feci a Nicholas Ray. Era il 1961 e avevo appena 21 anni. A quell’epoca lui era a Roma, forse aveva girato in Italia Il re dei re, e gli feci una lunga intervista poi pubblicata su Filmcritica e anche su una rivista inglese. Andai da lui la mattina per intervistarlo e mi invitò a restare per il pranzo, per poter continuare dopo. Bisogna però considerare che questi registi americani allora in Italia non erano considerati da nessuno ed erano sorpresi che qualcuno volesse fare un’intervista seria con loro. Adesso si è creato un mito intorno ai loro nomi, ma all’epoca non era affatto così.
Erano proprio gli anni in cui questi registi venivano rivalutati dai Cahiers du Cinéma.
Adriano Aprà: Esatto, e io infatti ero un “cahierista” della prima ora, mentre in genere la critica italiana era molto ostile al cinema americano, in parte per ragioni politiche. Ma non succedeva solo da noi, ovviamente. E in generale i registi statunitensi non erano abituati ad essere intervistati da persone che conoscevano bene la loro opera, parlo di un livello che non è certo quello del giornalismo. Nicholas Ray per esempio volle leggersi un mio articolo su di lui prima di concedermi l’intervista.
Com’era la critica allora?
Adriano Aprà: Io non parlo della critica giornalistica, dove abbiamo avuto anche ottimi recensori, nei nostri quotidiani. Io frequentavo un ambiente un po’ diverso, che era quello delle riviste di cinema e credo di aver avuto un ruolo importante di svecchiamento in questo ambito. Quando scrivevo negli anni ’60, prima per Filmcritica e poi per Cinema & Film, c’era un terreno vergine, era facile andare controcorrente e il tempo mi ha dato ragione. Rivalutare, sull’onda dei Cahiers, da un lato i cineasti del passato americani, dall’altro quelli italiani, come Rossellini che in Italia non interessava più a nessuno, rappresentava allora un atto di rottura. Per Rossellini ad esempio, siamo stati io e miei collaboratori a gettare per primi un faro sul suo cinema.
Come gli autori americani, Rossellini non interessava sempre per ragioni politiche?
Adriano Aprà: Sì, anche politiche, nel senso che allora si cercava il cinema “impegnato” e c’era l’influenza nefasta di Cinema Nuovo. Io ero su posizioni opposte, anche se quella è stata la prima rivista che ho letto. Avevo 16, 17 anni e come neofita la seguivo con interesse. Quando però ho scoperto i Cahiers, nel 1959, si è illuminato per me tutto un altro mondo, un altro modo di approcciare il cinema. Quindi negli anni ’60 mi sentivo molto diverso dal resto della critica in generale e credo di avere avuto un’influenza su quello che è avvenuto dopo, perché i valori che io e i miei colleghi portavamo avanti hanno retto poi nel tempo. La lettura che davamo dei film era allo stesso tempo razionale ed emotiva, mentre riviste come Cinema Nuovo avevano un rapporto molto distaccato. Noi avevamo principalmente una relazione empatica con lo schermo e poi facevamo una razionalizzazione, quindi un tentativo di leggere questi film a partire dalle forme espressive. E questo interesse per l’analisi del film mi ha portato in seguito a una deriva teorica che si è manifestata nel tradurre in Italia Che cos’è il cinema di André Bazin e La semiologia del cinema di Christian Metz. Col tempo, in realtà, Metz mi ha interessato meno, ma riconosco ancora oggi le ragioni del mio interesse per la sua opera, che erano dettate dalla necessità di arrivare a un’analisi scientifica del film, cosa complicata all’epoca, perché bisogna considerare che allora il film lo si vedeva una sola volta, in sala. Poi certo lo si poteva vedere di nuovo, prendendo appunti, facendo schemi, ma era del tutto differente da com’è oggi, che abbiamo i film disponibili nella nostra videoteca in DVD per reiterate visioni. E questo nel tempo ha portato a un’evoluzione nel mio modo di fare critica.
E ora com’è il suo approccio alla critica cinematografica?
Adriano Aprà: Proprio in questo periodo sto lavorando a un saggio per una rassegna che si terrà ai primi di luglio alla Mostra del Cinema di Pesaro, a proposito di quelli che io chiamo “i critofilm”, ovvero i film o i video che parlano di cinema. In questo saggio ripercorro il discorso sulla critica cercando di guardare al suo futuro e non al suo passato. Uno dei problemi centrali della critica è che si è sempre servita di uno strumento non omologo all’oggetto del suo discorso e cioè la parola scritta, o anche orale. Per cui tu “alludi” a qualche cosa sperando che nel lettore ci sia la memoria di quel film, ma è un discorso allusivo e questo mi ha sempre dato fastidio. Per questo mi interessava Metz, perché mi consentiva di avere uno strumento di analisi della struttura, della costruzione di un film, che però era sempre affidato alla memoria. Era rara per esempio la possibilità di potersi studiare un film in moviola. Una delle poche occasioni in cui mi accadde fu proprio grazie a Rossellini che ci permise di analizzare alla moviola Viaggio in Italia. Mentre in anni più recenti, questa mia insoddisfazione a proposito dello scrivere di cinema “alludendo” a qualcosa d’altro mi ha portato a decidere di usare il cinema stesso come strumento critico. Quindi la mia proposta per le nuove generazioni, quella che porterò a Pesaro, è questa: non dico di non scrivere più, ma di pensare con il cinema, perché quello che era difficile in passato, oggi è possibile grazie alle tecnologie digitali. Si può cioè fare critica usando lo stesso linguaggio dell’opera che si vuole analizzare. Io personalmente ho già realizzato alcuni “critofilm”, uno su Rossellini, che si intitola Rossellini visto da Rossellini, realizzato nel 1992, ancora in pellicola. Poi nel 2010 ho fatto Circo Fellini su I clown di Fellini, quindi nel 2011 All’ombra del Conformista sul film di Bertolucci, mentre nel 2013 ho diretto sia La verità della finzione su Il generale della Rovere di De Sica, sia Rosso cenere sull’isola di Stromboli e sul film di Rossellini con la Bergman. E devo dire che ho provato molta più soddisfazione nel fare questi lavori di quanta ne provassi nello scrivere di cinema. Ho anche un blog che esiste da un paio d’anni [questo il link, n.d.r.], dove ripubblico cose del passato, ma questo per l’appunto è il passato.
Quindi la sua proposta è che il critico diventi cineasta?
Adriano Aprà: Non cineasta, ma “videasta”. E nell’occuparmi di questo argomento per il Festival di Pesaro mi sono accorto che esiste un vasto materiale, qualcosa come tremila titoli, che comprende non solo gli extra dei DVD, ma va ben oltre. Questo vuol dire che c’è un movimento internazionale che si può suddividere in diversi sottogeneri – film su determinati film, su registi, attori, generi etc. – e che costituisce un vero e proprio filone della critica. E poi c’è un fiorire di opere brevi sul web, che dimostra quanto sia pieno di gente che sta facendo questo tipo di cose. C’è ad esempio un critico americano che si chiama Tad Gallagher, che ha approcciato questa forma di critica dapprima cimentandosi con gli extra dei DVD e poi realizzando dei veri e propri critofilm e, quando è stato intervistato in proposito, ha dichiarato che tutto ciò che aveva fatto prima – ovvero la critica scritta – non valeva niente. Magari esagera un po’, ma è questo che vedo come il futuro della critica. Poi ho fatto un’altra esperienza, molto minoritaria nel campo internazionale, che è la critica che io chiamo ipermediale, ovvero ho fatto un’analisi molto approfondita al computer di Storia dell’ultimo crisantemo (1939) di Kenji Mizoguchi. E in questo caso non ho realizzato un film, bensì un sito, dove tu clicchi e si aprono una serie di finestre con delle informazioni, inquadratura per inquadratura [questo il link al sito, n.d.r.]. Se io voglio sapere quali sono tutti i piani medi che ci sono nel film, clicco e li posso visualizzare. Il problema in questo caso è quello del diritto d’autore, ma secondo me sarà superato. In tal senso, la soluzione migliore è fare il singolo critofilm con l’avente diritto, vale a dire l’editore del DVD, presentandolo come extra. Nel caso di Mizoguchi, proprio perché lo mettevo on line, io non ho di fatto citato il film, ma i fotogrammi del film. Magari, anche se l’avessi citato, non avrei avuto problemi, ma sarebbe stato comunque un rischio. E, dal momento che lo facevo con l’università, con Tor Vergata, non la potevo coinvolgere in un problema di diritti. D’altronde, anche sul piano dell’insegnamento del cinema, credo che si debba tener conto di queste nuove possibilità, tanto che se oggi mi trovassi di nuovo a insegnare utilizzerei i critofilm.
Perciò ha identificato dei codici che determinano se un film è un critofilm oppure no?
Adriano Aprà: Sì, certo. Ad esempio in passato ho fatto una trentina di interviste come extra dei DVD, e queste, anche se escono con brani del film montati dentro, non le considero dei critofilm. Parlo piuttosto di film che abbiano una consistenza critica, una forma saggistica.
Qual è la forma più pura di critofilm?
Adriano Aprà: Quella dell’analisi di un film. Si analizza un film facendone vedere dei brani, accostandoli, mettendoli a paragone. Quella del critofilm è una sezione della critica minoritaria rispetto ai film sul cinema che esistono. È uno dei tanti sottogeneri di questo mega-genere.
La serie di film di André Labarthe, che in parte abbiamo potuto vedere nel 2004 proprio grazie a una retrospettiva del Festival di Pesaro, può rientrare in questa categoria?
Adriano Aprà: Beh, in qualche modo Labarthe è stato l’inventore del genere. In questa mia ricerca ho mappato tutta la storia del cinema e dal muto fino ai primi anni Sessanta c’è davvero molto poco. Il vero iniziatore è stato nel 1965 André Labarthe, insieme a Janine Bazin, non a caso provenienti entrambi dai Cahiers du Cinéma. Loro hanno inventato la serie Cinéastes de notre temps che è stata poi molto imitata, dove il modello era quello dell’intervista filmata ai cineasti, prima che morissero. Quindi ha creato una fondamentale enciclopedia del cinema di persone che ormai non ci sono più. Anche se con Labarthe non sempre siamo di fronte a quello che si può chiamare propriamente un critofilm, perché i suoi lavori sono dedicati a dei registi, più che a singoli film. Nella rassegna di Pesaro comunque credo che si vedranno delle cose molto interessanti. Ho dovuto fare una selezione, naturalmente, come sempre si deve fare, che nasconde tante altre gemme di cose realizzate. Ma anche solo quelle che riesco a proiettare mi sembra che diano un’immagine abbastanza definita del critofilm. Perciò al giovane che viene da me e mi chiede: “Come si fa a fare il critico?”, rispondo: “Vieni a vedere quello che si fa nel mondo oggi e decidi tu quello che si deve fare”. Secondo me si deve fare quello.
Come si coniuga però il critofilm con la critica militante? Perché una delle parole chiave che ci interessava affrontare con lei è proprio questa: la militanza. Ha ancora un senso oggi? È ancora possibile farla? Pensiamo anche al percorso che ha fatto lei nel corso degli anni, con il sostegno che ha dato non solo a Rossellini, ma anche al cinema di Straub e Huillet o all’underground.
Adriano Aprà: La critica cinematografica, partendo diciamo dagli anni Cinquanta, cioè da quando si affermano i Cahiers du Cinéma, è stata una critica militante nel senso che oggi si attribuisce alla critica cinefila. Vale a dire il fatto di interessarsi a particolari autori, essendo selettivi nei propri giudizi critici, anche se antitetici rispetto alla critica precedente, in polemica. Si intendeva in quel senso essere militanti. Questo atteggiamento è degenerato col tempo, già a cominciare dagli anni Settanta. Innanzitutto perché prima era una posizione di pochi nel mondo, ci si conosceva, era come una sezione carbonara, sapevamo che eravamo giovani con idee diverse rispetto a quelle degli altri. Questa cosa poi è degenerata nel senso che ora piace tutto il cinema e quindi oggi la cinefilia mi fa schifo. Non c’è più capacità selettiva, non c’è più gusto. Non c’è più l’esperto che individua immediatamente, in mezzo alle tante cose che si producono, ciò che vale veramente e ciò che non vale. In questo senso io credo di essere rimasto tuttora un critico militante. Poi è venuta una critica storica che si è avvalsa della maggiore accessibilità dei film, perché sono nati dei festival specializzati e perché le cineteche hanno fatto un lavoro di riscoperta, anche se sempre per un gruppo limitato di persone. Questi storici hanno revisionato la storia del cinema con un atteggiamento però non tanto centrato sul valore estetico delle opere, che è quello che interessa a me, quanto sulla loro collocazione nella storia. Uno sguardo più oggettivo che soggettivo. E questa è stata comunque una fase interessante di approccio al cinema. Poi, o quasi contemporaneamente, è nato l’insegnamento universitario del cinema, nei confronti del quale io sono molto sospettoso. Non mi piace la critica accademica, perché è diventata una critica di specialisti incapaci di avere una visione generale della storia del cinema, o anche solo dei cinema nazionali. C’è stata una prima generazione di docenti che proveniva dalla critica, tipo Micciché o Guido Aristarco. Ma una volta che è finita questa generazione, perché sono morti, è venuta fuori la generazione dei loro allievi, che ormai è diventata una critica interna all’università. Parlo dell’Italia, non dell’estero, che non conosco bene. In Italia sono tutte persone specializzate. In che cosa? Nella loro tesi di dottorato. Vale a dire che la riciclano continuamente. Non sanno niente della storia del cinema, conoscono un piccolo settore, e producono poco dal punto di vista delle pubblicazioni. Una volta che hanno fatto la loro carriera, si fermano. Fanno un libro per passare l’esame da ricercatori ad associati, poi un libro per superare un altro gradino. E ci sono degli editori specializzati nel pubblicare le loro tesi. E quello che viene fuori sono libri da cui emerge una critica arida. Lo dico ovviamente a partire dal mio punto di vista, sono un po’ settario adesso, lo riconosco. In più c’è il problema della presenza di un certo tipo di teoria rispetto alla pratica del cinema, cioè discorsi che per me, che ho visto la nascita della vera teoria del cinema negli anni Sessanta, non sono per nulla interessanti. Non dimentichiamo che in Italia Guido Aristarco ha pubblicato per primo negli anni Cinquanta un’antologia di teorici del cinema, da Ejzenstejn a Pudovkin, a Béla Balázs, e poi una storia delle teoriche del film. Delle opere per me insoddisfacenti. Per cui negli anni Sessanta c’è stato un nuovo tipo di ricerca, basato sulla semiologia, sulla psicoanalisi, che dalla Francia è arrivato in Italia, in Inghilterra, negli Stati Uniti. Adesso i giovani sembrano ignari di quello che è stato fatto in questo campo e giurano solo per la critica teorica di tipo americano, che è una nuova forma di colonizzazione: bisogna scrivere in inglese, perché è diventata la lingua della critica accademica, e si sono fondate riviste fatte solo per gli accademici. Ormai le valutazioni dei docenti in Italia vengono fatte attraverso il tipo di pubblicazioni che fanno. Se pubblichi qualcosa in una rivista in fascia A – quella che loro dicono essere fascia A – va bene. Ma se pubblichi in un’altra rivista, magari più diffusa, ma non riconosciuta dal corpo accademico, non va bene. Hanno formato una cittadella chiusa in se stessa che si manifesta nella CUC, cioè la Consulta Universitaria del Cinema, una banda mafiosa. Se vuoi passare all’università, o passi attraverso di loro o non passi. Io sono passato all’università – credo fosse il 2002 – grazie a una raccomandazione. L’unica volta in vita mia che sono passato attraverso una raccomandazione, grazie a Micciché che era allora il capo della CUC, quando ancora non era una banda mafiosa. E l’ho sempre dichiarato che ero stato raccomandato, sennò non passavo.
Ma chi sono questi maestri anglosassoni, David Bordwell?
Adriano Aprà: Sì, lui è uno. Uno di quelli meritevoli. È un’autorità internazionale e un conoscitore del cinema veramente notevole, basta vedere il suo blog e i libri che ha scritto. Io lo stimo molto. Però è uno che ha una visione universale del cinema, mentre questi che alludono a persone come Bordwell non ce l’hanno.
Questo discorso accademico in qualche modo si riversa anche nella critica cinematografica tout court, che infatti non riesce più ad essere influente come lo era prima. E che, forse, sembra sempre più chiusa in se stessa, oppure – al contrario – aperta in modo a-critico rispetto a ciò che succede nel cinema.
Adriano Aprà: Sì, non è che seguo benissimo il campo. Sfoglio, tra l’altro sul computer ormai, Cineforum, che è una rivista interessante, ma anche lì un po’ troppo generalista, vale a dire che non sono riviste che selezionano. Faccio parte del comitato direttivo di Cabiria, che per esempio non è considerata una rivista di fascia A.
Ah no?
Adriano Aprà: No, per nulla. Ogni tanto poi mi capita di buttare un occhio su Segnocinema, altra rivista non di fascia A, ma di larga diffusione. Questa è la contraddizione di cui parlavo. Quando sono entrato a Tor Vergata, dal punto di vista universitario, il mio curriculum era ai limiti dell’accettabile. Io ho curato centinaia di libri, alcuni fondamentali, tipo Bazin e Metz, adottati continuamente nelle università e ancora in circolazione. Ma non avevo scritto libri, o meglio ne avevo due o tre, ma forse neppure. Ho scritto migliaia di articoli, però. Ho fatto dei film, anche uno di finzione. Insomma ho una carriera che, modestamente, è notevole. Però dal punto di vista universitario era fragile. Per cui uno che pubblica un libro vale più di uno che ha scritto migliaia di articoli, per non parlare dell’esperienza con il cinema. Quando parlo di cinema infatti, ne parlo anche dall’interno della professione, di come si fa un film. Mentre loro ignorano tutto, non sono mai stati su un set, non hanno mai parlato con un regista. Parlando con Francesco Casetti, che ha presieduto la CUC, avevo paragonato la loro associazione ai matrimoni tra cugini. Ma ormai sono matrimoni tra fratelli, ne escono fuori dei mostri. Se l’accademia non accetta un sangue nuovo che viene da fuori, dall’esterno del loro mondo, beh, secondo me il suo futuro è quello, non dico della morte, ma di qualcosa che non vale niente.
Un tempo si criticava tanto il sistema dei baroni. Ora non ci sono più, ma forse è peggio. Perché prima quei baroni trovavano il modo – magari per l’appunto tramite raccomandazione – per dare spazio ai loro studenti meritevoli anche fuori dall’università. Ora invece chi fa, ad esempio, il dottorato, o prosegue con la carriera universitaria o se ne torna a casa.
Adriano Aprà: I baroni innanzitutto erano più competenti. Certo, erano pochi e avevano più potere. Casetti è un barone, ma tanto ormai insegna in America per l’appunto. Quando io sono entrato all’università, e quindi per la prima volta sono andato a un convegno della CUC, non conoscevo nessuno. Questa gente è sconosciuta all’esterno dell’università. La maggior parte, non dico tutti, intendiamoci. Sono dei perfetti sconosciuti e tali rimangono, solo fra di loro hanno intrecciato dei rapporti. Però basta parlare della critica accademica, che è un argomento che mi disgusta.
Ok, parliamo di festival. Lei ha diretto la Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro dal ’90 al ’98, e prima il Festival di Salsomaggiore dal ’77 all’89. Frequenta ancora i festival? Crede di trovarvi ancora un senso, vista la sempre maggiore possibilità di reperire i film in altri modi? Forse si trova ancora un senso nella possibilità di incontrarsi in queste pubbliche occasioni?
Adriano Aprà: Un po’ per stanchezza, non vado più ai festival. E vado poco anche al cinema. Ho 76 anni e non sono pochi. Mi sembra invece più interessante scoprire dei campi nuovi, come questo dei critofilm. Certo, i film li vedo, ma di solito aspetto che escano in DVD, quindi sono aggiornato, anche se un po’ in differita. Uno dei motivi per cui non vado più a Venezia o a Cannes è che mi sembrano delle macchine talmente grosse che poi è difficile incontrarsi. Preferisco i piccoli festival. Pesaro ad esempio che, con la gestione attuale di Pedro Armocida, è organizzato in modo da facilitare l’incontro, perché ci sono pochi film, anche per ragioni di budget. La mattina si fanno dei seminari dove gli ospiti si incontrano e, subito dopo, si mangia tutti insieme, si parla, si condividono idee e opinioni; poi nel pomeriggio e alla sera ci sono le proiezioni. Ci sono stato lo scorso anno e ho trovato che sia un festival dove non solo si vedono dei bei film, ma dove c’è anche uno scambio proficuo, cosa che non avviene in un grande festival. Prima frequentavo il festival di Morandini che ora non c’è più, il Laura Film Festival, che era piccolo ma piacevolissimo, si andava al mare, si mangiava assieme ci si incontrava e si vedevano film italiani. Quindi ci si poteva aggiornare su quello che era il cinema italiano, problema sempre più pressante perché il nostro cinema è vitalissimo, ma lo è ai margini. L’anno scorso ad esempio ho visto a Pesaro quello che, secondo me, è un capolavoro che si chiama Terra di Antonio Di Trapani e Marco De Angelis, due ex studenti di Roma Tre. È un film bellissimo, originalissimo. Poi, sempre a Pesaro, ho visto N-capace di Eleonora Danco, anche quello molto bello. Ecco, lì ci vuole la critica militante, per dare visibilità a questo cinema italiano. E infatti molti oggi, invece di fare i critici, fanno gli organizzatori culturali, come ad esempio succede all’Apollo 11, in cui lavora alla programmazione Giacomo Ravesi, altro ex studente di Roma Tre, e in particolare di mia moglie, Stefania Parigi, che insegna proprio alla Terza Università. Ci sono poi altri due ex studenti che conosco e che fanno la stessa cosa in Francia. Non so tra l’altro come facciano a campare, perché è sempre dura riuscire a guadagnare qualcosa da queste iniziative. Uno è Federico Rossin, l’altro – che vive a Lione – è Dario Marchiori. Sono molto bravi, si muovono a livello internazionale e non scrivono. Cioè, se glielo chiedo io, lo fanno – gratuitamente – e comunque fanno un tipo di critica completamente diversa. Come, del resto, in passato ho fatto anch’io. Quando negli anni ’70 ho chiuso la rivista che avevo fondato, Cinema & Film, ho scritto molto poco; dicevo però che facevo critica facendo la programmazione del Filmstudio, mostrando delle cose che altrimenti allora erano invisibili. Tra l’altro all’epoca il Filmstudio era l’unico cineclub ad essere aperto tutti i giorni, gli altri facevano un film alla settimana. E dicevo sempre che chi veniva al Filmstudio vedeva in un anno i film che io avevo impiegato dieci anni a vedere. Comunque nel giovane cinema italiano c’è molto da scoprire e, in generale, c’è una tale produzione nel mondo che, se uno vuole fare la critica militante, la può fare, anche se magari non ai livelli di un tempo. E poi c’è il cinema documentario che è anch’esso un sottobosco estremamente interessante. Da lì ho pescato molto quando dirigevo Pesaro, perché avevo preso alla lettera il nome della manifestazione di “Mostra del Nuovo Cinema” e per me in quel momento “il nuovo” stava nella non fiction. Inoltre, c’è tutto il mondo del cinema sperimentale che è un altro campo sconosciuto dove c’è una ‘talpa’ come Federico Rossin che fa un lavoro utile e diverso dal solito e non a caso vive a Parigi, dove oggi c’è l’unica struttura seria sul cinema sperimentale che è il Light Cone, e una casa di DVD sperimentali che si chiama Re:voir. Poi c’è Simone Starace che è un mio ex studente, e anche lui ha aperto una società che distribuisce DVD di film invisibili. Mi chiedo però come facciano a campare, mi pongo sempre questo problema perché, quando io facevo quello che loro fanno adesso, avevo anche un altro lavoro che mi serviva per sopravvivere.
E che lavoro faceva?
Adriano Aprà: Insegnavo agli studenti di ragioneria a utilizzare macchine contabili e calcolatrici, sostanzialmente gli antenati degli odierni computer. Ma allora erano delle complicate macchine della Olivetti. Non ho campato mai della critica, perché neanche allora ci si poteva campare. Quando sono stato direttore della Cineteca Nazionale è stato l’unico periodo in cui ho guadagnato, dal mio punto di vista, bene. Ma io sono uno che ha bisogno di poche cose.
E come sono stati quegli anni, dal ’98 al 2002, alla Cineteca Nazionale? Come è stato il rapporto con Micciché? Quali sono le cose che siete riusciti a fare?
Adriano Aprà: È andata molto bene. Abbiamo fatto un sacco di cose. Abbiamo ridato vita a una cineteca che era semi-morta.
Chi c’era prima?
Adriano Aprà: Prima c’era il facente funzione, Angelo Libertini, che poi è diventato il direttore generale. Persona odiosa. Raramente ho degli antagonismi nei confronti delle persone, sono molto tollerante, ma questo metteva sempre i bastoni tra le ruote. Poi era anche una figura un po’ losca, secondo me. È rimasto come direttore generale quando Micciché è stato chiamato a dirigere il Centro Sperimentale, mentre io facevo il conservatore. Ma in ogni caso siamo riusciti a fare molti restauri. Poi, dopo questo periodo, la Cineteca Nazionale è entrata un po’ nell’ombra, penso in particolare a confronto con la Cineteca di Bologna. Ai miei tempi Bologna era un’ottima cineteca, erano molto bravi, ma avevano un’importanza che non era paragonabile a quella della Cineteca Nazionale. Oggi è diverso.
Loro sono riusciti a fare enormi passi in avanti anche grazie al loro laboratorio di restauro, L’immagine ritrovata.
Adriano Aprà: Sì, ma non solo. Grazie anche al festival, a varie iniziative, alle pubblicazioni. Io li ammiro per questo. È una macchina grossa che funziona. A volte diventare grossi può essere pericoloso, perché magari non riesci a reggere tutto l’ingranaggio. Invece lì è pieno di gente giovane, ben scelta, dinamica e competente.
Visto che siamo quasi in argomento cosa ne pensa della querelle tra il digitale e la pellicola? Siamo di fronte a un passaggio epocale, a proposito del quale si parla sempre troppo poco.
Adriano Aprà: È un passaggio epocale perché riguarda tanti campi, dalla proiezione, alla ripresa, al restauro. Quando ero in cineteca e c’erano gli incontri della FIAF, ho assistito all’inizio della diatriba digitale sì, digitale no. La maggior parte degli archivi erano contrari, io invece ero favorevole. Anche perché sapevo che costava talmente tanto restaurare in pellicola, che per ogni restauro eri costretto a mandare a morte tanti altri film. All’epoca il restauro digitale in 2K di cui ho visto le prime manifestazioni costava molto, però io dicevo: quando si diffonderà, queste macchine costeranno sempre meno, e così è stato. Oggi qualche sopravvissuto che giura sulla pellicola c’è ancora, ma rimane un fatto: non si proietta più in pellicola, tranne rare eccezioni.
Recentemente però al Palazzo delle Esposizioni c’è stata una retrospettiva su Kieśloswki. E le copie erano quasi tutte in pellicola e non erano restaurate. Nel senso che erano copie d’epoca, la maggior parte in ottimo stato. Perciò, è sempre necessario restaurare, oppure spesso è un’operazione di marketing? Pensiamo ad esempio ai tanti restauri di un solo film, come Il gattopardo.
Adriano Aprà: Certo, a volte si restaura inutilmente solo perché ci sono gli sponsor che puntano sul film famoso che non ha bisogno di restauro perché è stato già restaurato. Questo è un fenomeno inevitabile. È come fare un film commerciale per guadagnare dei soldi. Poi però se ne fanno tanti altri di diversa natura. Capisco inoltre che c’è differenza tra un restauro in digitale e un restauro in pellicola, e tra una proiezione in digitale e una in pellicola. Capisco che uno possa sempre dire: la pellicola è meglio. O che si possa tirare fuori l’argomento che la pellicola non infiammabile si conserva molto di più del digitale. Ma ancora non lo sappiamo con esattezza.
In realtà lo sappiamo. Ci sono già diversi casi di digitale che sono spariti, come quello quello che ci ha raccontato Cherchi Usai per Toy story [vedere qui per l’intervista a Cherchi Usai, n.d.r.].
Adriano Aprà: Ah beh. No, io non lo so. Perché è un argomento che al momento non mi riguarda più. Però questa cosa è già successa anche in altri campi. Per esempio cos’era la critica pittorica prima dell’invenzione della fotografia? Bisognava andare nei luoghi in cui c’era quell’opera, vederla con i propri occhi e già non più nelle condizioni originali. Non solo per il degrado inevitabile dell’opera in questione, nonostante i restauri nel tempo, ma soprattutto per la presenza della luce elettrica invece della luce naturale o a candela con cui quei quadri erano stati concepiti dal Trecento al Settecento. Poi nell’Ottocento arriva, tardi, la luce elettrica, e tu oggi un quadro lo vedi alla luce elettrica. Questo cambia completamente il rapporto dei colori. E allora, che fare? Vogliamo tornare a fare un museo a candela? E la musica? Meglio quella dal vivo o quella registrata? Certo, continua a esserci la musica dal vivo, così come continuano a esserci la sale, poche, in cui si proietta in pellicola.
Cosa ne pensa dell’iniziativa di Cherchi Usai del Nitrate Picture Show?
Adriano Aprà: Beh, è molto affascinante. Però, anche lì, è una cosa di tipo nostalgico. E poi i film in nitrato venivano proiettati con la luce a carbone. Lo so perché al Filmstudio all’inizio avevamo un proiettore con la luce a carbone e me lo ricordo bene com’era. Bisognerebbe quindi proiettare i film a nitrato con la luce a carbone. Ma la luce a carbone è pericolosissima, perché gli incendi avvengono in maniera spontanea. Quando è stata inventata nel 1952 la pellicola safety, negli stessi anni è arrivata anche la luce allo xeno che invece è una lampada chiusa, protetta. Mentre i carboni non sono chiusi: avvicinandosi e consumandosi, producono delle scintille. Ma proiettare il nitrato con la luce allo xeno non è la cosa ottimale per ricreare il clima di un’epoca. E son sicuro che, quando ho diretto il Filmstudio nei primi anni Settanta, abbiamo anche proiettato a carbone delle copie a nitrato, probabilmente rischiando molto. Perché allora non si sapeva. Non è che su una pellicola c’era scritto che era un nitrato. Prendevamo i film dove si trovavano, vecchie copie, quindi probabilmente anche in nitrato. Beh, epoca eroica.
A proposito di epoche eroiche, Ciro Giorgini ci raccontava che lui a volte con altri amici andava fuori dagli stabilimenti dove buttavano le copie per mandarle al macero. Così le salvava. Ora, ipotizzziamo un futuro fantascientifico in cui tutto l’archivio della Cineteca Nazionale venga conservato su un hard-disk o su un archivio satellitare. Cosa succederebbe se intervenisse un hacker? Sparirebbe tutto con un solo click? Invece le copie in 35mm le si trovavano e si continuano a trovare nei posti più impensati. Pensiamo ad esempio alla scorsa edizione delle Giornate del Cinema Muto, quando è stato presentato un film giapponese, A Diary of Chuji’s Travels, creduto perduto per decenni e poi ritrovato recentemente a Hiroshima. Probabilmente è sopravvissuto all’atomica! Un DCP invece il più delle volte basta che cada a terra per rompersi.
Adriano Aprà: Possibile. Immagino che si facciano dei backup, ma magari non basta. Non saprei. Comunque ormai non frequento più né le Giornate del Cinema Muto né Il cinema ritrovato, che erano i miei festival preferiti, anche perché non dico di aver visto tutto, ma comunque mi ritrovo molto spesso a rivedere film che ho già visto. Certo, è piacevole vederli su grande schermo, ma ormai ce li ho a casa.
Tornando invece al Filmstudio, attualmente chiuso, vorremmo affrontare l’argomento cineclub, anch’essi ormai superati dai tempi. Ma questo non significa che il fatto di organizzare retrospettive di film del passato, di grandi autori e/o di grandi classici, non abbia successo. Lo vediamo al Palazzo delle Esposizioni che è quasi sempre pieno. E che però è un ente pubblico, al contrario dei cineclub.
Adriano Aprà: In genere le retrospettive non le fanno più perché costa, costa proiettare in pellicola, e anche in digitale. Comprarsi un proiettore in 4K non è cosa da poco. E poi quella stagione si è chiusa perché manca la sollecitazione ad andare, i film li possiamo vedere a casa. Bisogna essere giovani, come voi, oppure ricercare quell’ambiente socializzato, che è di certo importante.
Ma c’è stato un film che le ha cambiato la vita, che ha segnato la sua formazione?
Adriano Aprà: Sì, è stato Vertigo (La donna che visse due volte). Ricordo che lo vidi al Cinema Colosseo qui a Roma. Avevo diciannove anni e al momento l’ho considerato come il film più bello che avessi mai visto. Era come se fosse caduto dal cielo. Tra l’altro lo vidi che era quasi il mio compleanno, giorno più giorno meno, e anche quello mi sembrò un segno del destino. Andai subito a rivederlo il giorno dopo e presi tantissimi appunti. Vertigo ha cambiato il mio modo di riflettere sul cinema. Ancora adesso da qualche parte ho un quaderno con l’analisi praticamente sequenza per sequenza che feci allora. Per anni infatti ho riempito dei quaderni con delle note di critica.
Ma poi quegli appunti che prendeva a caldo le erano utili? Questo è un po’ il cruccio del critico: prendere degli appunti sul momento, magari anche durante la proiezione, e poi considerarli a mente fredda poco interessanti.
Adriano Aprà: Gli appunti mi sono stati utili soprattutto negli anni ’90, l’unico periodo in cui ho scritto settimanalmente per due testate, quindi era necessario che fossi rapido. Scrivevo per l’Avanti prima del suo crollo definitivo e per un mensile, Reset, che non so se esiste ancora. Su Reset facevo delle schede molto brevi e quindi gli appunti che prendevo in proiezione erano molto utili, perché li trascrivevo quasi integralmente. Comunque poi ognuno ha i suoi metodi. Spesso però scrivevo a caldo, appena visti i film. Scrivere d’altronde serve anche a memorizzare, accende la memoria.
Infatti non riusciamo a immaginare un futuro in cui la critica scritta perda del tutto il suo senso. Un senso che magari sarà completamente autoreferenziale e che però abbia un valore di crescita, soprattutto per chi la fa, la scrive, perché aiuta a riflettere sui film.
Adriano Aprà: In generale secondo me la critica scritta ha un valore se ha un valore letterario, se è buona letteratura. Esiste ad esempio la saggistica letteraria, nel senso che ci sono dei saggisti che sono considerati degli scrittori. Ma a quanti critici cinematografici nel mondo dedicano un Meridiano come è successo per un critico d’arte come Roberto Longhi? Quando stavo a Cinema & Film, nella seconda metà degli anni ’60, mi sono posto proprio il problema di elaborare una “critica poetica”, mentre quando stavo a Filmcritica la mia era una scrittura didascalica: volevo spiegare perché un film era bello. Ci sono dei saggi che ho raccolto in questo libro, Per non morire hollywoodiani. Notizie dal cinema di fine millennio, che oggi li trovo imbarazzanti perché presuppongono un lettore che abbia davanti agli occhi il film, sono densi di dettagli come “nell’inquadratura tal dei tali si vede questa cosa qui… o quel movimento di macchina lì”. Invece all’epoca di Cinema & Film mi sono posto il problema di fare una critica che avesse un valore di scrittura, poi ho cambiato ulteriormente, e adesso ho conquistato la chiarezza e forse l’essenzialità, la capacità di esprimere un pensiero con poche parole chiare, senza allusioni. Negli ultimi anni ho praticamente smesso di scrivere, ma ho anche elaborato questo stile che viene dopo il giovanilismo sia della critica troppo oggettiva che di quella troppo soggettiva. Alla fine ho trovato una via di mezzo che considero migliore.