Intervista a Vitalij Manskij

Intervista a Vitalij Manskij

Documentarista nativo di Leopoli da sempre politicamente schierato nella ricerca di una democrazia libera, sperimentatore narrativo e fondatore dell’ArtDokFest che dal 2006 si tiene annualmente, in barba alle strette maglie della censura, fra Mosca e San Pietroburgo, Vitalij Manskij è stato omaggiato dal Trieste Film Festival 2017 con la prima italiana del suo nuovo lavoro, Close Relations, e un’intera sezione retrospettiva. Lo abbiamo intervistato al termine di una proiezione.

In primo luogo, inizierei con una domanda su quello che è il tema più ricorrente del suo cinema, il concetto di patria. È una domanda che lei per primo ha posto ovunque nel mondo, ai Rivoluzionari cubani ormai attempati di Patria o Muerte, agli attori pronti a recitare le bugie di Stato della Corea del Nord svelate in Under the Sun, alla sua famiglia sparsa per l’Ucraina e in via di disgregazione nell’ultimo Close Relations, ai vecchi compagni di scuola con cui giurò fedeltà a un URSS di lì a breve dissolto e che andò a cercare in giro per il mondo nel 2005 in Our Motherland – Gagarin’s Pioneers, viaggiando dall’Ucraina alla Russia, da Israele a Gaza, da Parigi fino al Canada. Mi limito quindi a girarle la domanda che più volte abbiamo letto nei sottotitoli guardando i suoi lavori: cosa è per lei la patria?

Vitalij Manskij: Pongo la domanda a chiunque proprio perché io per primo sono ancora alla ricerca di una risposta. Sono nato nell’Unione Sovietica, uno stato in cui per motivi storici si andavano a limare il più possibile le caratteristiche nazionali, le differenze fra i popoli che ne facevano parte. Anzi, l’interesse dello Stato era l’unico vero punto focale, e le necessità individuali erano tenute nettamente in secondo piano: l’individuo era semplicemente al servizio dello Stato, era obbligato a giurare fedeltà e ad adoperarsi fino a essere disposto a morire per la patria. Il fatto è che io ritengo invece che per la patria si debba vivere, non morire, e che abbia senso vivere solamente se non si è schiacciati da uno Stato che cancella le differenze culturali. Non posso rispettare uno Stato che non rispetta il suo popolo, soprattutto quando si tratta di uno Stato che ospita al suo interno tanti popoli diversi. Ecco perché non riesco a definire cosa sia la patria, è una questione a cui ancora non riesco a dare risposte. È una domanda che tutti i cittadini post-sovietici si sono posti, e ancora ce la poniamo quasi ogni giorno ognuno con le sue conclusioni. Sono nato a Leopoli quando era ancora in URSS, e mentre vivevo in URSS a Mosca ho visto la mia città natale diventare Ucraina. Dopo l’annessione della Crimea alla Russia sono andato a vivere a Riga, in Lettonia, non potendo più sopportare di abitare in un Paese che attacca un Paese confinante e si annette territori. Leopoli forse è l’unico luogo in cui automaticamente mi sento a casa, ma neanche lì mi sento di appartenere a tutta la città, quanto solo alla parte in cui sono cresciuto. Posso capire che questo susciti delle perplessità ma è una risposta onesta, l’unica che mi sento di dare. Ed è per questo che il concetto di patria ancora mi agita e continuo a tornare sulla questione nei miei film.

Nel suo approccio al cinema documentario, capita spesso di trovarsi di fronte a chiari elementi di finzione o comunque a un articolato processo di scrittura, con situazioni e personaggi che si pongono come emblemi, paradigmi in grado di raccontare la realtà fornendo esempi e interpretazioni, oppure collegando avvenimenti. Secondo lei, quanto un documentarista può e deve intervenire sulla realtà? C’è un limite da non superare che farebbe perdere veridicità al film documentario? E ancora, più in generale, quanto peso ha in un documentario la pura osservazione e quanto ne ha la narrazione?

Vitalij Manskij: Faccio prima a portare un esempio: nel 2011 ho girato Private Cronicles. Monologue, che più volte è stato accusato di essere un film di finzione a causa del personaggio fittizio che tiene le redini della narrazione. Il cuore del film è però un montaggio che attinge a migliaia di ore di video amatoriali girate da migliaia di persone, e personalmente ritengo che il video amatoriale sia in assoluto la forma di documentario più pura. Per cui in questo film c’è uno scenario dichiarato e c’è un personaggio effettivamente inventato, ma questo personaggio è semplicemente funzionale a far convergere tutto il flusso di questi video amatoriali. Tecnicamente questo è un film di finzione, ma anche all’unico personaggio non reale ho dato la data di nascita di mia moglie e una voce concreta, che non è la mia, ma quella di un attore che ha ricevuto un premio per la sua qualità espressiva. Un film che monta ciò che considero la forma più pura di documentazione, lo considero a tutti gli effetti un film documentaristico, rivendico la sua assoluta “documentarietà”. E no, non esistono confini che non si possono superare. In ogni caso, preferisco non considerare i miei film cinema documentario, ma cinema del reale.

Interessante precisazione, ben oltre la sfumatura. E a questo punto, se necessario, il cinema del reale può paradossalmente raccontare il vero anche attraverso la dichiarazione della sua irrealtà… Viene in mente ancora una volta Under the Sun, film straordinario non solo come documento storico sulla Nord Corea dei Kim, ma anche come riflessione sul cinema in quanto illusione e disvelamento dell’inganno. Non aveva possibilità di girare al di là dello script governativo, ma le hanno lasciato a disposizione quelli che sarebbero dovuti essere gli scarti, le scene da rigirare perché “non abbastanza patriottiche”. Montando nel film le diverse versioni delle scene e gli interventi degli uomini del governo impiegati per controllare che il film desse l’immagine “giusta” di Pyonyang, è riuscito a dimostrare come la realtà possa essere costantemente manipolata, e forse come proprio il cinema sia l’unico dispositivo in grado di denunciarne “la truffa”. Che importanza hanno le immagini e il montaggio al di là della parola? E quanto c’è nei suoi film a livello di riflessione sul cinema?

Vitalij Manskij: Sono un osservatore anche del cinema degli altri autori come produttore e come operatore culturale, ho fondato e dirigo un Festival, sono un profondo amante del cinema. E a volte lo vedo morire proprio perché dimentica l’immagine per andare troppo incontro alla parola scritta e alla sceneggiatura, invece che adeguarsi alle condizioni che la realtà di per sé pone. In Under the Sun credo si sia riusciti a far sposare questi approcci cinematografici, quello del cinema documentale e quello del film reale. Abbiamo mostrato semplicemente quello che è accaduto, abbiamo sfruttato una falla nel sistema di controllo per avere materiale a sufficienza e poi abbiamo utilizzato le possibilità che il mezzo fornisce, in questo caso il montaggio, per raccontare la realtà.

A proposito di opere cinematografiche altrui, mi sovviene un’altra domanda. All’ultimo Festival di Venezia, la sua area geografica è stata rappresentata da due film che non potrebbero avere un approccio più diverso. Da una parte Austerlitz di Sergej Loznitsa, regista come lei “diventato” ucraino, è un viaggio accorato e disperato nella museificazione e nei selfie dei turisti nei campi di sterminio, dall’altra il quantomeno preoccupante Paradise del moscovita Andrej Končalovskij presenta in sostanza tutti gli europei collaborazionisti ai tempi del nazismo, e solo la purezza culturale di un russo già in sostanza putiniano meriterà la salvezza. Da una parte, quindi, troviamo le riflessioni su un’umanità che tende a far cicatrizzare troppo presto l’orrore, e dall’altra uno sguardo così filogovernativo da assestarsi pericolosamente sul crinale della propaganda. Quale può essere, in una dicotomia politica e tematica così evidente, il futuro del cinema russo?

Vitalij Manskij: Già il fatto che ci si debba chiedere se considerare Loznitsa un cittadino russo o ucraino ci riporta al concetto mobile di patria, non se ne esce. A questa domanda bisognerebbe rispondere in più persone, confrontarci tra di noi, perché in realtà siamo di fronte a operazioni culturologiche strane. Com’è possibile che Končalovskij, che ha vissuto in Italia e in Francia, nel suo ultimo film cerchi di dissuadere il corpo sociale russo dal proseguire su una via evolutiva europea? E come mai Loznitsa, che è ucraino e vive in Germania, continua a essere considerato un autore russo oltre i confini orientali? Consideriamo anche che Loznitsa, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, ha rifiutato categoricamente di tornare sul territorio della Federazione e di rilasciare interviste a giornalisti dei media russi. È venuto solo all’ArtDokFest, dove il suo film è stato presentato, ma non ha rivolto parola ai media moscoviti. Tornando alla domanda sul cinema russo, temo che seguirà lo sviluppo dell’ideologia statale, recuperando vecchi approcci di isolazionismo e di utilizzo di strumenti culturali prodotti in casa e destinati al mercato interno. Si vedranno solo film russi, si seguiranno solo giornali russi, e questo porterà a una tragedia culturale che, continuando così, per essere poi riportata indietro richiederà decenni. Del resto, tutti i film che in questo momento escono sul mercato interno della Federazione Russa contengono una base di propaganda. Attenzione, questo non significa che siano diretti strumenti propagandistici, vuole solo dire che a volte si opera in maniera sottile. Un esempio concreto in un altro campo sono le previsioni del tempo sulla tv russa: prima danno le previsioni generali nel mondo, dopo c’è una cerniera molto accentuata con una lunga pausa, e poi riprendono dicendo “e adesso le previsioni in Russia: sole in Crimea”. In questa pausa c’è molta propaganda. Se nel resto del mondo piove e in Crimea c’è il sole, potete facilmente immaginare quale possa essere il modo anche indiretto in cui la propaganda si annida nei film che escono nel mercato commerciale interno alla Federazione Russa.

Sfrutto il collegamento con il Festival che lei ha fondato e dirige, l’ArtDokFest, terza kermesse cinematografica russa nonostante le opposizioni da parte del Cremlino. È un Festival di cinema non allineato, di cinema all’opposizione, di cinema fortemente osteggiato, quando non ostracizzato, dalla Russia di Putin. Come funziona la censura in Russia? E come si devono rapportare con la censura un cineasta e un direttore di Festival?

Vitalij Manskij: Tutti gli strumenti tecnologici in grado di registrare o riprodurre immagini sono nella Federazione Russa sotto il rigido controllo dello Stato. È un cambiamento che Vladimir Putin ha introdotto anche se sono mezzi tecnici che utilizzi per il business indipendente. Ma torniamo alla censura: quando sono presenti almeno tre persone, la legge ufficialmente vieta che tu possa registrare un qualsiasi video di 3 o più minuti, anche se sei al bar sotto casa e fai con il telefonino riprese del tuo gatto. Per poter mostrare un video con queste caratteristiche in un luogo pubblico, bisogna fare i seguenti passi: fondare una compagnia, pagare le tasse che ti spettano, dichiarare ufficialmente i fini per questo video, e solo dopo tre o quattro step burocratici molto complicati ottieni – forse – il diritto a uno schermo. Dal 1° gennaio 2017 è stato peraltro introdotto un ulteriore cambiamento nella legge, che dice chiaramente che è vietato mostrare questo video anche “con altri mezzi tecnici”, il che sottende Internet. Perché prima di questo cambiamento, almeno su Internet, c’erano film che vedevano liberamente decine di milioni di persone senza l’ufficiale permesso statale, ora non più. Passiamo ad ArtDokFest. Nell’edizione 2015 a Mosca sono stati mostrati brevi video di studenti o comunque brevi filmati realizzati in assenza di questo permesso speciale, e da quel momento ci sono state sette cause amministrative intentate dal Ministero della Cultura contro l’ArtDokFest. Abbiamo ovviamente perso tutte e sette le cause: questa è la censura in Russia. Ma andiamo avanti, e anzi siamo cresciuti: ormai il Festival si svolge non più solo a Mosca ma anche a San Pietroburgo ed Ekaterinburg. È un Festival “Al posto della libertà”, per il quale sentiamo un forte senso di responsabilità nei confronti del pubblico che riempie le sale.

D’altra parte, ma questo è un paradosso, sono spesso proprio le difficoltà a far emergere il miglior cinema. Dal neorealismo italiano diretto figlio delle Guerre in poi, quasi tutte le nouvelle vague nascono come l’urgenza di liberarsi di un conflitto, da una dittatura o comunque da situazioni esplosive. In Francia la causa scatenante sono stati gli echi della Guerra Fredda e della guerra d’Algeria, così come oggi in Romania il Nuovo Cinema è in fondo la necessità di liberarsi definitivamente del fantasma di Ceausescu. Viene in mente in tal senso l’ottimo cinema balcanico successivo al conflitto yugoslavo, viene in mente l’attuale cinema delle Primavere Arabe, vengono in mente le cinematografie dalle forti autorialità provenienti dalle Filippine e dalla Cambogia, alla ricerca di un’identità per Paesi a cui la Storia l’ha negata. Forse, il cinema che in questi anni ha meno da dire è proprio quello che stando troppo bene ha finito per imborghesirsi…

Vitalij Manskij: Sono d’accordo, basta guardare alle nostre spalle. Dostoevsky, Anna Achmatova, Solgenitsin, lo stesso Tarkovskij… Ogni genio che ho appena nominato ha lasciato grandissime opere, capolavori dolorosi. A distanza di tanti anni tendiamo a dimenticare le pene che hanno dovuto patire, ma di sicuro in quel preciso momento, mentre lo stai vivendo, il dolore è insopportabile.

Info
Il sito del Trieste Film Festival.
Il sito ufficiale dell’ArtDokFest, festival diretto da Vitalij Manskij.

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