David Lynch. La memoria americana
David Lynch trasporta sul grande e sul piccolo schermo un cinema dell’inesprimibile che prende corpo nell’ovvietà delle situazioni, passaggio onirico che non interpreta un ruolo antitetico alla realtà ma sviluppa la propria trama come scoria distorcente della realtà stessa.
Il cinema di Lynch nasce dalle situazioni più classiche e, il che è segnale forte e inequivocabile, nasce nei luoghi classici della storia contemporanea statunitense. Già nella follia angosciante di Eraserhead erano riscontrabili i germi di questa tendenza, nella sequenza in cui Henry Spencer va a trovare la famiglia della sua ragazza Mary: tipica cena familiare, con la nonnina a mescolare l’insalata in cucina e il padre/capofamiglia che si intrattiene con l’ospite. Ma qui tutto è ancora ottenebrato dall’atmosfera deformata, che mostra la nonna come una disabile e che trasforma la cena di famiglia in un incubo meccanico. L’esplosione vera e propria dell’elemento popolare nel cinema di Lynch si ha con Blue Velvet, sin dal suo pacificante inizio: bambini che vanno a scuola, un pompiere che saluta con la mano, fiori, villette a schiera. Sembra quasi di assistere ai (falsi) ritratti di vita dell’epoca del doo-woop, del Mr. Sandman delle Chordettes, dei “Magic Moments” di Perry Como, e il titolo stesso del film non lascia dubbi: Blue Velvet non è altro che il celebre brano portato alla ribalta da Bobby Vinton nel corso degli anni ’50. Il Paradiso prospettato dagli anni ’50 deve però scontrarsi con gli incubi degli anni ’80, dando vita al mistero e all’intreccio, nel quale continuano a essere lanciati elementi di cultura popolare, come la sequenza del pestaggio notturno di Jeffrey con Frank Booth che gli urla in faccia le parole di In Dreams di Roy Orbison, cantata in playback da Ben.
Ma elementi che rimandano al secondo dopoguerra è possibile rintracciarli ovunque, nelle scenografie, nei costumi, nelle automobili. Un mondo perduto che invade la realtà per deformarla. Sempre pronto a irrompere all’interno delle dinamiche incubali e oniriche del regista di Missoula, il rapporto tra Lynch e la cultura popolare trova il suo apice naturale tra il 1990 e il 1992, attraversando i corpi di celluloide di Twin Peaks, Wild at Heart e Fire Walk with Me, dove tutto (o quasi) è frutto del pensiero mainstream, dalle ambientazioni – la New Orleans nera nella quale arrivano Lula e Sailor, la Harley-Davidson di James, le citazioni di Elvis Presley – ai dialoghi (gli irresistibili duetti tra un Dale Cooper affascinato dalle crostate di ciliegie e dagli alberi e lo sceriffo Truman), fino ai risultati che in Wild at Heart rasentano il fumetto (fumetto come ideologia, non come la pretesa citazionista a cui si sta assistendo in questi ultimi anni). Da Lost Highway in poi l’esplorazione delle angosce e delle contraddizioni dell’America popolare perde il ruolo predominante all’interno della filmografia lynchiana, ma permane come substrato, evidenziabile nell’ambiente che circonda Pete Dayton, nel singolare viaggio di Alvin Straight e nei provini per il film nel film a cui partecipa Rita in Mulholland Drive. Cinema dell’inesprimibile che prende corpo nell’ovvietà delle situazioni, cinema onirico che non interpreta un ruolo antitetico alla realtà ma sviluppa la propria trama come scoria distorcente della realtà stessa.