David Lynch. L’incubo industriale e la serialità
All’elemento industriale, anima dello stridore e del disturbo, si affianca la fascinazione di Lynch per la serialità: l’atmosfera lynchiana, più volte celebrata all’alba del nuovo millennio, si fonda sulla reiterazione di oggetti e luoghi, senza che questi vengano mai elevati a simbolo.
Di seguito il tentativo più fedele possibile di scrittura della sinossi di Eraserhead, lungometraggio d’esordio di Lynch (all’epoca trentenne):
La prima sequenza mostra l’immagine della testa di un uomo che fluttua nel vuoto e, in sovrimpressione, la superficie di un pianeta. All’interno del pianeta, un uomo col volto deturpato da cicatrici, è seduto vicino ad una finestra e aziona in continuazione delle leve meccaniche. Degli strani esseri, che sembrano l’incrocio fra un feto e uno spermatozoo, vengono liberati e piombano in una pozza di liquido. Sullo schermo nero si apre un piccolo cerchio che ingrandisce poco alla volta fino ad invadere l’intero schermo. L’uomo che si è visto nella prima sequenza (e che si scopre chiamarsi Henry Spencer) cammina in un ambiente urbano fatto di macerie. Entra nel suo palazzo e sale in ascensore fino al piano in cui abita. Qui la sua vicina di appartamento lo informa che una ragazza di nome Mary lo ha cercato per invitarlo a cena a casa dei suoi. Henry entra nel suo appartamento, invaso da rumori provenienti dalla macchina del gas e dal termosifone e mette un disco sul giradischi. Poi apre un cassetto e vi estrae una fotografia strappata di Mary. Giunto a casa della ragazza, Henry conosce la madre, il padre che ha un braccio inerte e la nonna, che sembrerebbe morta se non fosse che fuma le sigarette. A tavola vengono serviti dei polli particolari: quando Henry cerca di tagliare il suo, questo comincia a muovere le zampe ed emette un liquido nero. Mary ha un attacco isterico e la madre informa Henry che la ragazza ha partorito, prematuramente, uno strano essere. A casa di Henry, Mary cerca di nutrire il figlio, una sorta di feto con la faccia simile al muso di un coniglio scuoiato e con il corpo interamente coperto di fasce. La notte, insofferente al continuo pianto del piccolo, Mary torna a casa dai suoi. Nel radiatore Henry vede illuminarsi un teatrino dove si esibisce una cantante dalle guance gonfiate da due tumori. La sua canzone recita “In Heaven everything is fine” (In paradiso tutto va bene). La vicina di Henry chiede di passare la notte con lui: i due hanno un rapporto sessuale e sono inghiottiti da una pozza lattiginosa formatasi al centro del letto. Riappare nuovamente la donna del termosifone: Henry ora è con lei sulla scena. La testa dell’uomo si stacca dal corpo che rimane in piedi: al posto del volto dell’uomo compare quello del figlio che emette il suo solito singhiozzo lancinante. La testa di Henry cade in una pozzanghera dove viene presa in consegna da un ragazzino che la porta in fabbrica, dove viene utilizzata per ricavare piccole gomme per cancellare poste all’estremità delle matite.
Henry si sveglia: la creatura emette strani rantoli. Henry si accorge che il figlio è malato, prende delle forbici e taglia le bende che coprono il corpo del piccolo. Il torace del bambino si apre e comincia a produrre una sostanza biancastra, mentre la luce della stanza si mette a tremare. La testa del neonato galleggia in aria, e cresce fino a riempire la stanza. Il pianeta dell’inizio del film si frantuma, l’uomo dal volto sfigurato perde il controllo delle leve. Henry e la donna del termosifone si abbracciano. Una luce bianca riempie lo schermo.
Questa ricostruzione, che non rende merito com’è inevitabile allo stratificato splendore dell’opera, riesce comunque a mettere a fuoco alcuni dei punti nodali del film in questione e dell’intera poetica lynchiana. Innanzitutto la difficoltà del rapporto filiale: tema già sviscerato nel mediometraggio The Grandmother, girato in 16mm nel 1970 e che tornerà in seguito in opere come The Elephant Man, Wild at Heart e Twin Peaks. Il film potrebbe essere facilmente letto come l’impossibilità per la mente di un uomo di metabolizzare e accettare l’idea stessa della paternità. Ma, sebbene questa sia la più diretta delle metafore, sarebbe alquanto riduttivo leggere quest’opera capitale solo sotto quest’ottica. Alla sua opera prima Lynch costruisce un film astratto che rifugge dall’abbandono del fine narrativo, anzi ne esaspera i contenuti: la narrazione di Eraserhead procede con le stesse movenze di un’opera musicale, attraversata da singulti, rumori, boati e improvvisi quanto desolanti silenzi. Si apre infatti con un’ouverture dove sono condensati tutti gli snodi principali dell’opera: la testa dell’uomo che fluttua (che rappresenta la sua fuga mentale), lo spermatozoo (che rappresenta la procreazione) e l’esplosione (che rappresenta la catarsi finale). E risulta fin da subito evidente quanta parte abbia il sonoro nell’immaginario visivo di Lynch: suoni extradiegetici che spesso risultano completamente incomprensibili se non addirittura incongrui, e che diventeranno un vero e proprio marchio di fabbrica all’interno del cinema del regista statunitense – si prenda ad esempio la scena di Blue Velvet in cui Kyle MacLachlan schiaffeggia Isabella Rossellini: sul dettaglio della bocca della donna colpita dal violento colpo del ragazzo si eleva un suono gutturale, un gorgoglio inconsulto.
Un cinema che mostra inequivocabilmente l’influenza di una società industriale stratificata e ossessionante: la meccanica è alla base di un’opera come Eraserhead, e la società della meccanizzazione crea mostri quali i polli serviti a pranzo. L’intera struttura potrebbe essere interpretata come la metafora di un mondo meccanizzato e tecnologico che sovrasta l’uomo (la testa di Henry che diventa gomma per matite, i rumori industriali, l’uomo che aziona le leve, la donna nel termosifone) e che, spintosi troppo in là, è destinato ad esplodere (come il pianeta, ma anche come il torace della creatura nata dal rapporto tra Mary e il protagonista). Meccanica che non esula neanche dai rapporti umani, resi impossibili dalla società moderna, come palesa il rapporto sessuale tra Henry e la sua vicina di casa, sforzo puramente meccanico. E sempre da queste ossessioni industriali provengono i fumi bianchi e densi che pervadono la Londra nella quale si aggira sperduto il John Hurt di The Elephant Man, o gli incubi di fuoco che turbano l’idillio fra Laura Dern e Nicolas Cage in Wild at Heart. Per non parlare di Twin Peaks, cittadina apparentemente pacifica sulla cui coscienza grava il rumore delle acciaierie Packard, simbolo del male quanto il vagone ferroviario abbandonato nel quale Ronette Pulaski e Laura Palmer incontrano Bob. Questo senza dimenticare l’Industry Symphony No.1, spettacolo teatrale riprodotto anche in video che Lynch allestì nel 1989, e che era interamente dominato dal tema dell’industria. Industria che nega la possibilità del contatto umano e che diventa terreno fertile del male, dell’incubo, della zona oscura.
All’elemento industriale, anima dello stridore e del disturbo, si affianca la fascinazione di Lynch per la serialità: l’atmosfera lynchiana, più volte celebrata all’alba del nuovo millennio, si fonda sulla reiterazione di oggetti e luoghi, senza che questi vengano mai elevati a simbolo. Ricercare un sottotesto nel penzolante semaforo notturno che funge da collante in Twin Peaks o nel teatrino che vive all’interno del termosifone in Eraserhead incrementerebbe soltanto lo stato di confusione mentale. La verità è che Lynch è uno dei pochi – pochissimi – cineasti contemporanei capace di dar vita, nelle sue avventure cinematografiche, ad elementi mitici, feticci che reclamano l’ingresso nell’immaginario collettivo venendo trasfigurati dal loro iniziale significato. Ecco dunque che la tensione avanguardista di Lynch viene a sposarsi con l’elemento popolare, fondendosi e integrandosi a vicenda. Non deve dunque stupire che Lynch sia sempre stato così attratto dalla televisione, l’elettrodomestico che più di ogni altro è riuscito a rendere mitico il nulla che mostrava. Oltre al celeberrimo Twin Peaks, il cui tormentone “chi ha ucciso Laura Palmer?” era entrato nella mente di milioni di persone come il migliore degli slogan pubblicitari, Lynch ha affrontato altre volte il serial televisivo: nei sette episodi di On the Air, nei tre di Hotel Room – poi venduto come film unico – nell’episodio pilota di Mulholland Drive, girato nel 1999, rifiutato e mai andato in onda e trasformato – cinema che nasce dalla televisione, e non il contrario – nell’omonimo lungometraggio del 2001. Ma il rapporto di Lynch con l’esperienza seriale non è tutta qui: sua era la produzione e la conduzione di Ruth Roses and Revolver, programma per la BBC nel quale venivano presentati film surrealisti, sue le regie di molti spot pubblicitari (storico quello per la Playstation, purtroppo mai apparso in Italia, nel quale mescolava elementi da videogame a riprese del suo immaginario personale come la testa fluttuante di Eraserhead). Cinema capace di reggersi sulla linea di confine tra avanguardia e cultura popolare, due facce entrambe percorribili, come le strade perdute che si reggono sulla linea di mezzeria mentre percorrono a velocità folle la notte dalla quale non riusciranno mai a uscire, come Dale Cooper imprigionato in eterno nella Loggia Nera e trasformato nella figura speculare di Bob. Cinema/specchio, dunque, teso a riflettere – e a far riflettere – le falsità della realtà e cinema che nasce, vive e muore in sé, frutto delle proprie regole e della propria logica. E cinema della serialità, capace di essere serie al di là di ogni serie – l’incipit di Blue Velvet che diventa incipit di The Straight Story.