INLAND EMPIRE
di David Lynch
INLAND EMPIRE è l’ennesimo capolavoro partorito dalla mente di David Lynch. Un viaggio nel sogno/incubo del cinema, senza via d’uscita alcuna.
La terra dei sogni
La storia di un mistero… Il mistero di un mondo all’interno di altri mondi… Che si svela intorno a una donna… Una donna innamorata e in pericolo. [sinossi]
Un bambino uscì per giocare, aprì la porta e vide il mondo.
Attraversando la porta causò un riflesso.
Nacque il male.
Nacque il male, e seguì il bambino.
(Favola polacca citata da Grace Zabriskie in INLAND EMPIRE)
Ci eravamo lasciati in un teatro barocco, con il primo piano di una donna che sussurrava “silencio”; sono passati cinque lunghi anni da Mulholland Drive, e l’attesa per l’avvento di INLAND EMPIRE si era fatta sempre più spasmodica. Come da abitudine Lynch aveva sprofondato le poche notizie che giungevano dal set in un’oscurità misteriosa.
E tale è anche l’atmosfera del suo decimo lungometraggio, il primo girato in digitale, che appare da subito come la prosecuzione estetica e di senso dell’opera precedente, a sua volta legata a doppio filo all’intera opera del cineasta di Missoula, da Lost Highway indietro nel tempo fino a Eraserhead e ai cortometraggi degli esordi. Come Mulholland Drive (al quale si ricollega negli splendidi titoli di coda), INLAND EMPIRE è un film sul cinema, sull’immaterialità della realtà, sull’evanescenza, sul set come elemento di passaggio tra le varie realtà: in maniera ancora maggiormente palese rispetto al passato le anime errabonde – un vagare imprecisato, che attraversa i possible worlds propri della fisica quantistica – che popolano la mente di Lynch sono frutto del delirio onirico, lo citano in continuazione, ne rendono partecipi i loro astanti. Un sogno che non prevede scarti percettivi dal reale ipotetico, ma che è intriso della stessa vacuità che si respira a pieni polmoni nella dorata Hollywood, la terra dei sogni. Ogni opera di Lynch basa la sua essenza primaria su una tautologia (ricordate il geniale dialogo sulla “Donna Ceppo” nel pilot di Twin Peaks?): quella che dà il La a INLAND EMPIRE è “Le stelle fanno i sogni, e i sogni fanno le stelle”, e in questa frase è nascosta l’idea di cinema che Lynch sta portando avanti con pervicacia, e senza alcun compromesso, da trent’anni.
INLAND EMPIRE è inequivocabilmente un film di David Lynch, lo è in ogni suo frammento, in ogni suo passaggio, nello svanire nel nero dei suoi personaggi, nell’utilizzo straordinariamente espressivo delle sovrimpressioni, nel vorticoso girare intorno al proprio asse e nel ripiegarsi su di sé come il “Nastro di Moëbius” che caratterizzava già il dittico Strade perdute/Mulholland Drive e che torna, moltiplicato all’eccesso, in quest’ultima fatica. Moltiplica all’eccesso la propria autorialità suddividendo l’opera in universi plurimi (la realtà, intesa come tale solo perché prima nel palesamento della sua essenza, il film nel film, la Polonia, la crime story, la leggenda metropolitana del film maledetto), e soprattutto espandendo all’infinito il tema del doppio: non c’è più una trama leggibile da entrambi i lati come negli ultimi lavori – fa eccezione, come è fin troppo ovvio, il sublime Una storia vera dove la trama al contrario procedeva per progressione lineare, perché il viaggio di ricerca intrapreso dal protagonista aveva già dal suo incipit una meta prefissata – ma si ha l’impressione di poter penetrare nella profondità del film in ogni momento, riuscendo a sbucare dalle porte più impensate, in un labirinto caotico che non ha spiegazione perché non prevede, nella sua base di partenza, la razionalità. Non a caso fu proprio Lynch ad affermare: “Vedo sempre più i film come separati da qualunque tipo di realtà. Sono piuttosto simili a fiabe o a sogni. Per me, non sono un modo per fare politica o un modo per insegnare qualcosa. Sono solo cose. È un altro mondo in cui scegli di entrare, se lo vuoi”. La scelta è un elemento essenziale del cinema di Lynch, ogni azione prevede una conseguenza adeguata, e questo è ripetuto fino allo sfinimento all’interno della pellicola. Precisando che avremmo desiderato una seconda e magari anche una terza visione di INLAND EMPIRE prima di gettarci in una disamina critica, azzardiamo nella lettura di quest’opera coraggiosa e a suo modo capitale che si tratti del film più autoriflessivo di David Lynch: non solo per la palese citazione del suo misconosciuto Rabbits (surreale e bizzarro lavoro in digitale diretto a ridosso di Mulholland Drive che forma, insieme ai coevi Dumbland e Darkened Room, una sorta di manifesto programmatico che anticipa, in più di un passaggio, le derive di INLAND EMPIRE), ma anche e soprattutto perché è impossibile non intravedere ogni suo film in queste tre ore e poco meno di spettacolo.
E quando affermiamo che è possibile respirare il cinema di Lynch a pieni polmoni, non siamo in vena di frasi iperboliche o di forzature intellettuali: di fronte alla dispersione alla quale sembrano essere andati incontro buona parte degli spettatori all’anteprima veneziana noi intendiamo leggere INLAND EMPIRE non come la summa del pensiero lynchiano ma più che altro come l’ovvia prosecuzione di un percorso autoriale nel quale il termine “irrazionale” viene troppo spesso interpretato erroenamente, spogliato della sua essenza cinematografica, letto esclusivamente come gioco. Non riusciamo infatti a capire come si possano considerare corpi a se stanti opere quali The Elephant Man, Dune (che rimane, è vero, l’opera meno compiuta di Lynch, ma non certo per demerito suo) o addirittura Blue Velvet; perfino Una storia vera, al di là delle deviazioni rispetto al tracciato degli ultimi film a cui facevamo cenno in precedenza, è letteralmente intriso della poetica lynchiana (l’incipit speculare a quello di Blue Velvet, la descrizione della provincia, le inquadrature della linea di mezzeria che altro non sono che la versione rallentata di quelle che popolavano Lost Highway). Chi ha voluto cozzare contro INLAND EMPIRE per partito preso ha commesso un errore critico gravissimo, e soprattutto non ha fatto nulla di nuovo, se è vero che abbiamo ancora davanti agli occhi la recensione di Lost Highway di Paolo Mereghetti dove si poteva leggere: “Ormai non si può pretendere sincerità da Lynch, né bisogna prenderlo troppo sul serio”. Ribattiamo che è facile criticare il cinema di Lynch, accusarlo di inintellegibilità, affermare con sufficienza “non si può capire” e passare oltre. È così da sempre e lo sarà ancora di più allorquando INLAND EMPIRE uscirà nelle sale: a tutti coloro che, dopo averlo visto, si aggireranno disperati alla ricerca di qualcuno che possa dar loro una spiegazione razionale, consigliamo fin d’ora di andarsi a rivedere l’intera filmografia di Lynch – e per intera intendiamo anche i cortometraggi degli esordi, dietro i quali si cela già il senso del cinema del regista statunitense, e opere passate in sordina come Industrial Symphony No. 1: the Dream of the Broken Hearted, On the Air e Hotel Room –, perché è lì che troveranno tutte le risposte di cui hanno bisogno. INLAND EMPIRE trasuda tutto ciò che ha da sempre contraddistinto l’arte di Lynch: l’ossessione per la serialità, l’incubo industriale che sembra sempre dover trascinare via i protagonisti, la riflessione su Hollywood come mostro omicida che si nasconde nel buio e dissangua le anime pure che si aggirano nei dintorni (e in questo Laura Dern potrebbe essere vista come la versione invecchiata non solo di Naomi Watts ma anche e soprattutto delle giovani in trouble di Twin Peaks Lara Flynn Boyle, Sherilyn Fenn, Mädchen Amick e Heather Graham), la realtà che è costretta dalla sua relatività temporale a moltiplicarsi all’infinito, la fascinazione per gli anni ’50, l’amore come atto supremo, motore nascosto di ogni vicenda umana. Certo, c’è la novità (per quanto riguarda i lungometraggi) dell’utilizzo del digitale, arma che nelle mani di Lynch si trasforma in qualcosa di estremamente personale, lontano dalla prassi – e in questo sarebbe interessante un raffronto con le ultime due opere di Michael Mann, altro maestro degli USA contemporanei che ha deciso di confrontarsi con le nuove tecnologie – e che forse può presentare un ulteriore intralcio per lo spettatore sprovveduto o poco propenso ad aprirsi alla visione; ma una volta che si ha avuto la prontezza di scorgere gli elementi che citavamo in precedenza all’interno del film sarà impossibile non comprendere l’importanza di INLAND EMPIRE, la sua grandezza, il suo splendore. A noi, tra tutti, ci ha riportato alla mente soprattutto Fuoco, cammina con me!, che fu il film meno compreso di Lynch, proiettato tra i fischi in quella Cannes che solo due anni prima lo aveva incoronato per Wild at Heart. A giudicare dall’esodo durante la proiezione lidense temiamo che la storia si ripeterà.
Info
INLAND EMPIRE, il sito ufficiale.
- Genere: drammatico, thriller
- Titolo originale: INLAND EMPIRE
- Paese/Anno: Polonia, USA | 2006
- Regia: David Lynch
- Sceneggiatura: David Lynch
- Fotografia: David Lynch
- Montaggio: David Lynch
- Interpreti: Diane Ladd, Grace Zabriskie, Harry Dean Stanton, Jeremy Irons, Julia Ormond, Justin Theroux, Laura Dern
- Colonna sonora: David Lynch, Krzysztof Penderecki
- Produzione: David Lynch, Mary Sweeney
- Distribuzione: Bim Distribuzione
- Durata: 172'
- Data di uscita: 09/02/2007