Opera Jawa

Opera Jawa

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Opera Jawa, il nuovo gioiello partorito dalla fervida mente di Garin Nugroho, è un viaggio iniziatico nel mito indonesiano. A Venezia 2006.

Un fegato di maiale può svelare molte cose

Attraverso un musical viene rappresentato il triangolo amoroso di tre ex ballerini che in passato avevano recitato nel “Rapimento di Sinta”, storia tratta dal “Ramayana”, grande classico della letteratura indiana, al quale è ispirato anche il film. [sinossi]
La furbizia si trasforma in potere
La preghiera in minaccia
L’impotenza in rabbia
La forza in violenza
(da Opera Jawa)

L’intera carriera cinematografica di Garin Nugroho, fin dall’esordio Love is a Slice of Bread dell’ormai lontano 1991, si è interrogata sull’humus culturale indonesiano. Nel tentativo di trovare il bandolo della matassa di uno stato di duecento milioni di abitanti attraversato da culture agli antipodi e da un passato recente sanguinoso e barbarico, Nugroho ha dato voce e immagini alla babele di Giakarta e dintorni sia nei lungometraggi a soggetto (il già citato Love is a Slice of Bread, lo straordinario Bird Man Tale) che nelle incursioni nel documentario (lo spietato sguardo sulla vita per le strade della capitale racchiuso in Kancil’s Tale of Freedom, per esempio), fino a raggiungere uno dei punti più elevati della sua poetica nella crasi di queste due istanze cinematografiche sintetizzata nell’ottimo Serambi, visto prima a Cannes e poi recuperato a Procida nel corso del sempre più apolide Il vento del cinema.
Negli ultimi anni l’arte del capofila dell’intero panorama cinematografico indonesiano si è addirittura estremizzata, scandagliando con ulteriore precisione chirurgica le tradizioni di un popolo ancora in costruzione: nella fiction Of Love and Eggs dove ha racchiuso nelle (dis)avventure quasi in odore di Truffaut di un gruppo di bambini l’impellente bisogno di una comunità che si riconosca come tale, al di là di ogni possibile ostacolo culturale e storico, ma anche e soprattutto nel documentario televisivo Trilogy Politik, nel quale il ruolo metaforico della trama si è fatto palese, tra retaggi di colonizzazioni più o meno invasive e schegge di paradossi contemporanei pronte a colpire quando meno ce lo si aspetta.
Questo lungo preambolo era necessario non solo per inquadrare con maggior precisione uno dei principali artefici contemporanei della Settima Arte, ma soprattutto per affermare con forza come non ci abbia minimamente stupito affrontare la visione (splendida) di Opera Jawa, presentato nella sezione Orizzonti del Festival Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2006.

Tratto dal Rapimento di Sinta, uno dei sette canti che compongono il Ramayana, poema epico che rappresenta uno dei classici della letteratura asiatica, Opera Jawa è un vero e proprio manifesto d’intenti, sia ideologico che poetico, di Garin Nugroho. Mettendo in scena questo melodramma a forti tinte, Nugroho ne riveste la struttura narrativa (di per sé particolarmente legata alla prassi, con il più classico dei triangoli amorosi destinato a sfociare nel sangue) di una fitta trama di rimandi alla storia politica dell’Indonesia e più in generale ne trasfigura i contenuti fino a far diventare il tutto un vero e proprio pamphlet sulla sopraffazione e sull’abuso del potere. Per dare maggior forza alla propria voce il cineasta si affida poi al musical, in un’opera eseguita interamente seguendo i codici sonori del Karawitan, genere musicale eseguito solitamente dalle orchestre Gamelan, dove a gestire la base ritmica provvedono in particolar modo elementi percussivi, xilofoni e metallofoni. Questa doppia natura di opera fortemente lirica e allo stesso tempo metaforica permette a Nugroho di mostrare il lato più figurativamente ricco del suo cinema: distaccandosi dal realismo di alcuni episodi del passato più recente (i resti dell’Apocalisse dello tsunami in Serambi, il bozzetto cultural-popolare in Of Love and Eggs) il regista mette in scena dei veri e propri quadri che vanno dal surreale – lo straordinario finale sulla spiaggia – al grottesco, senza alcuna soluzione di continuità. In alcuni punti l’esasperato epos sprigionato dalla pellicola sembra ricondurre Opera Jawa a quell’universo magmatico, sospeso, indefinibile e fluttuante che permise in passato a Nugroho di scrivere alcune delle più belle pagine del cinema contemporaneo: la poesia della realtà, così barbarica e allo stesso tempo pura, eterea, fragile è la stessa che si respirava a pieni polmoni in Love is a Slice of Bread, ma è a And the Moon Dances che quest’ultima affascinante fatica sembra più facilmente apparentabile.

Come nel capolavoro del 1995, anche Opera Jawa sfrutta una scelta di carattere prettamente antropologico (qui è la musica Karawitan, undici anni fa erano la musica e le tradizioni dell’isola di Giava) per sposarla a una messa in scena folgorante, tracimante barocco in ogni sua parte, umorale ed eccessiva, in cui il lavoro di scenografia è pensato e studiato unicamente per esasperare i contenuti di una fabula tanto archetipica da non poter rifuggere dal proprio ruolo simbolico e metaforico.
“Le persone forti ricadono negli eccessi come anche quelle deboli, perché non c’è spazio per la condivisione: quel che accade è un conflitto tra due estremi generati dai massacri”: queste alcune delle note di regia che è possibile reperire sul catalogo distribuito al Festival di Venezia. Garin Nugroho, da bravo cantore dell’inelettutabilità della violenza e del ciclico ricadere dell’uomo nella disperazione della barbarie e della violenza, descrive un mondo impazzito, crudele con chi non è dotato degli anticorpi necessari proprio come lo spietato Ludiro è nei confronti della coppia costituita da Setio e Siti.
Laddove in passato era stato possibile desumere dai fotogrammi dei suoi film piccoli agganci al cinema occidentale (leggasi Godard e Visconti in massima parte), Opera Jawa ci pone contro un muro di granito compatto e finimente decorato. Per lo spettatore occasionale e/o disattento lo scontro con questo universo visivo e sonoro potrebbe risultare ostico quando non propriamente fatale (e non a caso al Lido il Palagalileo si è svuotato in fretta e furia, trattamento analogo a quello riservato a un’altra piccola grande perla del cinema asiatico di quest’anno, Tachiguishi retsuden di Mamoru Oshii), ma se si ha l’apertura mentale per cercare di leggere in filigrana la ricchezza cinematografica e morale della pellicola non si potrà non riconoscerne la grandezza.

In un mondo del cinema che ci appare anno dopo anno sempre più simile alla pista delle montagne russe, mancava da qualche tempo il film che avesse il dovere di scioccarci, farci interrogare sul senso della settima arte, depredarci per poi mostrarsi improvvisamente generoso. Ecco, se siete alla disperata ricerca di un pugno ricevuto di sorpresa, in Opera Jawa lo troverete.

Info
Il trailer di Opera Jawa.
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