Summer Heat

Summer Heat

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Brillante Mendoza racconta, con Summer Heat, la vita di una famiglia composta da un uomo e dalle sue tre figlie. Un grande omaggio al cinema di Lino Brocka, diretto da uno degli autori più interessanti del nuovo cinema filippino.

Jess e le sue sorelle

La storia è ambientata a Guagua, dieci anni dopo l’eruzione del Monte Pinatubo, e segue le vite di Rodolfo “Mang Rudy” Manansala e delle sue tre figlie e le loro relazioni con le persone che li circondano. [sinossi]
Brillante Mendoza, quarantaseienne regista filippino approdato al cinema dal (ben più remunerativo) campo pubblicitario, ha all’attivo solo tre film da quando esordì, poco più di un anno fa, con Masahista – visto al Festival di Locarno 2005. Eppure non sembra un’eresia quella che ci porta a leggere Kàleldo (Summer Heat è il titolo scelto per la vendita internazionale), sua opera seconda, come un’anomalia all’interno della sua poetica; passato alla Prima Festa Internazionale del Cinema di Roma all’interno della macrosezione Extra, nella quale sono confluite tutte quelle opere che non riuscivano a trovare una postura corretta né nel concorso ufficiale né nel fuori concorso, Summer Heat è un dramma familiare dall’accento vagamente americano, girato in 35mm e con un badget ben più che discreto.
Basterebbero questi brevi cenni per inquadrare l’opera in un contesto estraneo alla prassi produttiva che negli ultimi due decenni sembra aver lobotomizzato il processo creativo filippino: non siamo di fronte alle baracconate in odore di amatorialità di Rico Maria Ilarde, e nemmeno al low-budget duro e puro che contraddistingue le opere più oltranziste di Lav Diaz. Ma, ed è questo che rende il tutto ancora più interessante, Summer Heat si distacca con discreta forza anche dalle altre due opere di Brillante Mendoza, che se in Masahista giocava tutto sull’arma del paradosso e del rovesciamento dei simboli, nell’ultimo Manoro visto al 24. Festival del Cinema di Torino tesse la sua trama sull’instabile piano dell’incrocio tra ricerca antropologica e fiction pura e semplice.
Insomma, all’interno dei codici visivi del cinema giovane filippino Summer Heat acquista un ruolo alieno, di difficile collocazione, facile allo sfocamento. Il film punta l’occhio su una famiglia filippina, il cui nucleo è composto dall’anziano Mang Rudy e dalle sue tre figlie, Grace, Lourdes e Jess; attraverso quattro capitoli i cui titoli rimandano ai quattro elementi, Mendoza porta davanti ai nostri occhi esistenze ai limiti della sopportazione, tra violenze domestiche, risibili apparenze da rispettare, riti soffocanti. In un percorso in caduta libera il cineasta filippino mostra un lato pessimista che già in parte si intuiva in Masahista ma che qui assume i contorni di un’epopea tragica, saga familiare in cui l’essere umano è destinato alla sconfitta, al dolore e alla remissione.
In questo melodramma corale – e proprio lo stato di vena dei protagonisti, con Cherry Pie Picache in testa, permette stabilità a un impianto narrativo troppo volutamente sconnesso e suddiviso per reggere sulla lunga distanza – non c’è nulla che riesca a trovare la via per la salvezza: né i rapporti familiari né tantomeno le tradizioni, entrambi involucri vuoti, privi di alcun senso reale. Le vite dei protagonisti di Summer Heat sono sterili, improduttive come la terra di Gagua, la cittadina nella regione di Pampanga dove Brillante Mendoza è nato e dove il film è ambientato. Per la provincia fu letale l’eruzione del vulcano Pinatubo, per Mang Rudy e le sue figlie (una lesbica, una sposata a un marito violento e una immatura e vigliacca) la rottura dei pur labili legami che mantenevano l’armonia.
In un profluvio di sentimenti estremi e agli antipodi, Mendoza si limita a una messa in scena corretta, educata e mai eccessivamente invasiva: dimostra di saper sfruttare gli spazi con estrema perizia, sta attaccato ai suoi personaggi con la giusta determinazione, nella spinta necessaria a creare empatia tra loro e il pubblico. Al contrario di Masahista e soprattutto di Manoro (a tutt’oggi il suo lavoro più compiuto) non osa mai troppo, e finisce per costruire – suo malgrado? – una macchina mainstream oliata e funzionante.
Nel bel mezzo della crisi cinematografica filippina sforna il film che farebbe la fortuna di qualsiasi indipendente americano esordiente o giù di lì. Chissà che non rappresenti un precedente per un nuovo modo di intendere la macchina cinema a Manila, riportandola all’epoca magica di Lino Brocka

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