Alberto Grifi – Il cinema oltranzista
Un ricordo di Alberto Grifi, tra le voci più rilevanti del cinema d’avanguardia italiano, politico e lontano da ogni compromesso.
Il cinema oltranzista
Mentre voi avevate il settimo cavalleggeri,
il napalm, e le bombe di Hiroshima e Nagasaki,
noi avevamo appena una vecchia moviola in un sottoscala
per farvi a pezzi…
Alberto Grifi
Quello che avete di fronte non è un omaggio post-mortem tradizionale. Non lo è perché, semplicemente non può esserlo: è scritto in prima persona, visto che colui al quale è dedicato mi era vicino. Il dolore che mi pervade non si riferisce solo alla perdita di una figura chiave per comprendere e contestualizzare l’avanguardia italiana dagli anni sessanta a oggi, ma è qualcosa di molto più privato, personale, straziante. Ho avuto la fortuna e l’onore di avere Alberto Grifi come docente, al corso di regia e sceneggiatura indetto da Marco Müller nel 2004 in quel di Barbarano Romano, in provincia di Viterbo. Da allora l’ho seguito, a correnti alterne, abituandomi ai saliscendi di un umore quantomai imprevedibile e spiazzante: fino al punto di arrivare a essere filmato all’interno di quel progetto che avrebbe dovuto estendere ai giorni d’oggi la satira militante di Dinni e la Normalina.
Ciononostante non mi lascerò andare a un esercizio retorico sull’amicizia, il dolore della perdita e tutti gli altri accessori del patetico che solitamente vengono sfoggiati in queste occasioni. L’intento che mi sono prefissato, e che ambirei a portare a termine, è quello di redigere un ritratto sincero di un artista che è stato nella maggior parte dei casi poco compreso dalla critica (che continua ancora a leggerne in filigrana l’opera prendendo come punto di partenza Anna, ovvero la sua creatura più anomala), dal pubblico (che lo ha semplicemente ignorato), ma anche dai suoi colleghi. Non c’è alcuna intenzione sensazionalistica nel descrivere l’opera di Grifi come la più importante testimonianza della controcultura cinematografica nostrana: nessuno, all’interno della ristretta cerchia dell’underground italiano dell’epoca, ha saputo scalfire con così tanta forza la corazza del cinema istituzionale, sporgendosi ripetutamente al di là del senso comune e osando bombardare un apparato granitico – all’epoca, soprattutto – con una serie di provocazioni atte a destabilizzare, spaventare quasi il possibile uditorio di riferimento.
In quest’ottica la sua esperienza autoriale fotografa un’urgenza estetica e narrativa – con l’estetica che è, deve essere, narrativa di per sé – che manca anche alle migliori menti a lui coeve: Piero Bargellini, per esempio, ragionava più da vicino sulla macchina/cinema in quanto tale, sulla sua peculiarità tecnica, lasciando da parte la componente sociale e politica. Per non parlare di Tonino De Bernardi, interessato principalmente a una messa in scena del privato di fronte agli occhi stupratori del pubblico. Tutti elementi, questi, che Grifi ha sfiorato a più riprese nel corso della sua carriera: se si prende per esempio L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima si comprende con chiarezza come il discorso sulla tecnica cinematografica (elemento sul quale si strutturava anche il recente A proposito degli effetti speciali) non è il centro del discorso, ma funge più che altro da McGuffin per analizzare nel concreto il cinema nella sua funzione bivalente di testamento della realtà (le riprese del campo di concentramento di Auschwitz) e imitazione della realtà (i ripetuti tentativi di Monica Vitti di scoppiare in lacrime).
Già, la realtà: ciò che sorprende con forza avvicinandosi la prima volta al cinema di Alberto Grifi è la sua anomala e originale interpretazione del reale. Anche quando ciò che si palesa davanti agli occhi degli spettatori sembra aver raggiunto il grado zero del cinéma verité, come nel caso della scena dei pidocchi in Anna, è sempre presente l’impressione di avere a che fare con uno studio delle infinite possibilità del reale piuttosto che con una “semplice” messa in scena del vero. Anche per questo motivo ritengo che la critica istituzionale abbia sbagliato completamente mira analizzando nel corso degli ultimi trent’anni quell’opera capitale che è Anna, pensato/scritto/girato in compagnia di Massimo Sarchielli: capitale da un punto di vista strettamente produttivo (essendo la prima opera in video girata in Italia), estetico (quattro ore impossibili da identificare in un genere specifico), mediatico (fu l’unica opera della stagione controculturale del nostro cinema a ottenere una visibilità notevole, sia grazie alle proiezioni ininterrotte al Filmstudio di Roma, sia grazie alla partecipazione ai festival di Berlino e Venezia del 1975 e a quello di Cannes del 1976).
Nel restringere Anna nell’angusto spazio del cinema della realtà (dove al massimo potrei accettare di far rientrare Lia e Parco Lambro) si commette altresì un crimine non indifferente, limitandone in maniera decisiva la portata rivoluzionaria. Forse anche per questa incomprensione di fondo non si è avuta l’occasione di leggere con attenzione il resto della sua cinematografia: che non è, a dire il vero, particolarmente corposa, per il semplice fatto che per tutti gli anni ’80 Alberto ha abbandonato in pieno l’impegno artistico per impegnarsi a fondo nel documentario industriale e in alcuni progetti per la RAI. Proprio l’emittente di stato in precedenza aveva prima sovvenzionato, quindi censurato e – addirittura – mai programmato in palinsesto Michele alla ricerca della felicità e soprattutto Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follìa militante, due dei lavori più personali e oltranzisti della carriera di Grifi: nel primo si studia da vicino, con l’occhio dell’entomologo ma anche con una partecipazione che rende il tutto ancora più straniante, la condizione carceraria del nostro paese. Opera scarna, essenziale, quasi violenta nella sua totale ricerca della spoliazione, Michele alla ricerca della felicità è uno dei film più lucidi di Grifi; all’esatto opposto si pone invece Dinni e la Normalina, creatura eccessiva, schizofrenica, genialoide e al contempo esagerata, dove l’anima più puramente ludica di Grifi fa capolino pur non dimenticando l’intento provocatorio alle spalle; è la polizia, qui, a sfruttare le possibilità del video, l’arma che più di tutte fece di Grifi il cantore di una rivolta utopica quanto priva di mediazioni. Questo paradosso dal forte sapore autoironico non si sposa però alla perfezione con il resto del tessuto narrativo, facendo di Dinni e la Normalina un’opera imperfetta ma straordinariamente “altra” rispetto al panorama nel quale si inserì.
Quello che probabilmente manca a Dinni e la Normalina è la capacità di ergersi, sia eticamente che esteticamente, contro l’istituzione cinematografica prima ancora che contro i poteri dello Stato; insomma, quella capacità di identificare il Sistema anche e soprattutto nello stesso mondo del cinema – quando solitamente gli autori vedono nella Settima Arte il rifugio sicuro dai mali della società – che fece della sua opera seconda (l’esordio, Cristo ’63, girato su un palco di Carmelo Bene, sembra essere andato irrimediabilmente perduto), La verifica incerta, uno dei caposaldi del cinema degli anni sessanta. Co-diretto in compagnia di Gianfranco Baruchello, La verifica incerta consiste nel montaggio, spiazzante, sprezzante, ironico, di una serie di pellicole hollywoodiane destinate al macero: utilizzando quell’approccio che sarà, tanto per dirne una, alla base del successo del programma di RaiTre Blob, Grifi e Baruchello agiscono in maniera a dir poco terroristica nei confronti del gotha del cinema mondiale. In questo brillante e destabilizzante gioco dada (che si apre, non a caso, proprio sul volto di Marcel Duchamp, quasi a volerne rimarcare l’ispirazione), i due cineasti affrontano di petto l’idea di cinema come industria, ne sovvertono i codici e si divertono a minarne le certezze. Un atto di insubordinazione che procurò loro da un lato il plauso incondizionato delle avanguardie di ogni tipo – tanto da essere presentato al MOMA per bocca ed entusiasmo di John Cage -, dall’altro l’ira funesta della critica che, comprendendone il forte valore tellurico, se ne tenne precauzionalmente a distanza. Eppure sarebbe ora di riprendere le fila del discorso lanciato da La verifica incerta, e cercare di identificarne un senso anche nella nostra paludata contemporaneità.
Oramai ostracizzato dai salotti industriali, la carriera di Grifi non può che dipanarsi in quel sottobosco oscuro ma all’epoca assai florido dell’underground: è così che vengono alla luce il bello studio sul teatro di Aldo Braibanti Transfert per kamera verso Virulentia, il misconosciuto ed esaltante Orgonauti, evviva! e soprattutto Riuscirà Giordano Falzoni nel ruolo di principe azzurro munito di giochi ottici rotanti a restituire la voglia di vivere alla bella addormentata? (conosciuto anche con i titoli Il grande freddo e Le avventure di Giordano Falzoni), straordinario gioco visivo nel quale il pittore Giordano Falzoni è l’esca usata per fare uscire allo scoperto la dittatura della fabula e la videocamera l’arma per combattere tale dittatura, l’unica forse possibile da contrastare con la mera tecnica cinematografica.
Con il finire degli anni ’70 si esaurisce anche la vena creativa di Grifi: il riflusso che colpì l’intero movimento gli fu a dir poco fatale, tanto da condurlo su vie decisamente diverse. Rimane il suo studio sulle tecniche – fu lui a inventare il vidigrafo, e stava da anni lavorando a una “lavatrice” per pulire i nastri magnetici dei vhs e, di fatto, restaurarli – e un decennio di opere da rivalutare e iscrivere tra le più esaltanti visioni dell’avanguardia mondiale. Da tempo, oramai, Alberto stava male: soffriva a causa di un cancro che lo stava logorando, non aveva casa (molte le petizioni a suo favore, c’è da dire che il mondo che amava lo ha ricambiato con forza), era debole e malandato. Ma non ha mai svenduto la sua coerenza intellettuale, questo no. E forse si tratta di un pregio non semplice da comprendere appieno. Mancherà, Alberto Grifi: al cinema italiano, nel quale ha rappresentato una voce libera come poche, agli studi sull’arte digitale, al sottoscritto. Anzi, sta già mancando.