Nuage

Con Nuage Sébastien Betbeder immerge lo spettatore in un dramma atmosferico, a suo modo quasi misterico. Un viaggio nella nube che è anche metafora del cinema, e della visione.

Nuvole in deragliamento

La storia ci narra di Marianne, moglie di un fotografo quasi cieco, che è scomparsa da alcuni giorni; proprio per questo motivo Clara, figlia della coppia, è tornata nella vecchia casa natale a L’Orée du Bois, nella Valle d’Ossau sui Pirenei Atlantici. In città il giovane Simon è alle prese con un problema fisico quantomai anomalo: soffre di un disturbo alla vista che consiste in un velo nero che, per una frazione di secondo, gli oscura completamente il campo visivo. Per strada Simon aiuta una donna in stato confusionale ad attraversare la strada, quindi ne riconosce il volto nelle opere del fotografo, in allestimento per una mostra. Decide quindi di recarsi a L’Orée du Bois per avvertire l’uomo del suo avvistamento, ma sulla strada il suo difetto alla retina torna a farsi sentire ed esce di strada con la macchina. Viene raccolto da Clara, ma oramai non ricorda più il motivo della sua visita… [sinossi]
Una nube può sprofondare il mondo nell’oscurità,
ma se, seguendo una traiettoria inconsueta, scende fin sulla terra,
diventa un velo in cui i personaggi «si perdono».
Sébastien Betbeder

Abbiamo deciso di aprire questa recensione con una dichiarazione dello stesso regista perché, cosa non poi così abituale, riesce a rendere con le parole il senso ultimo della pellicola. Nuage è un’opera misteriosa, contemplativa, nella quale la messa in scena acquista un valore a tratti quasi iconico; un viaggio oscuro e fantasmatico in un mondo di ombre, di dissolvenze, di sparizioni.
A suo modo Betbeder, trentaduenne al suo esordio nel lungometraggio (ma l’anno scorso era presente a Locarno con il mediometraggio Les Mains d’Andréa, sul quale torneremo fra poco), immerge l’intera narrazione nello stesso stato di trance estatica che sembrano vivere i personaggi del film, colti da amnesia o da bizzarre menomazioni all’apparato oculare. Ed ecco che ci troviamo a dover tirar fuori dagli anfratti della memoria il già citato Les Mains d’Andréa: come nell’opera immediatamente precedente a questa, Nuage vive sulla linea di mezzeria che divide la realtà dalla fantasia.

Difficile raccontare un film come Nuage, perché in ogni caso si rischia di svilirne il reale valore: se è infatti vero che in un’ora e venti viene condensato un numero non indifferente di azioni, bisogna anche tener conto di come esse si sviluppino con una fluidità resa possibile soprattutto dalla potenza atmosferica degli ambienti in cui ci si muove. Dicevamo in precedenza del mood sognante che pervade, come la nuvola che avvolge i personaggi negli ultimi venti minuti, Nuage, e che è uno dei tratti distintivi del cinema di Betbeder (a meno di essere clamorosamente smentiti dai suoi cortometraggi degli esordi, che non neghiamo di voler recuperare al più presto): il regista francese ha costruito, al di là della ricerca estetica dello spazio e della messa in scena del vuoto sul cui valore torneremo a parlare, una favola pressoché perfetta. Nuage, pur affrancandosi con una certa sicumera dalla fabula classica e dalle sue dinamiche, si determina come favola nel momento stesso in cui si arriva a comprendere come non si tratti altro che di un lungo “viaggio dell’eroe” quello con cui abbiamo a che fare; rispetto a molti film, presenti sempre qui a Locarno, che pretendevano di assurgere al ruolo di fiabe contemporanee senza penetrare minimamente nell’intricato groviglio della narrazione favolistica, il film di Sébastien Betbeder coglie con una naturalezza sorprendente il nocciolo della questione. Abbandonando i legami, troppo restrittivi, con una narrazione classica ma senza disdegnare una consecuzione d’eventi che rispetti in qualche modo la logica, Betbeder affida le sorti della sua creatura ai Pirenei, rendendo l’ambientazione da principio osservatore “super partes” delle vicende umane e, nel finale rarefatto e declinato a una dolcezza estrema, vero e proprio motore immoto delle stesse. Questa scelta, tutt’altro che di comodo – anche perché non vi è alcun sentore che essa sia frutto del desiderio di pervenire a una sorta di, ci si perdonerà il termine, “scorciatoia estetica”, escamotage furbesco per ammaliare lo spettatore e sfruttare la strada più semplice –, permette al giovane cineasta di creare un universo dai contorni sbiaditi, in cui gli elementi naturali – e con essi i rumori, i silenzi, i pieni e i vuoti – arrivano a coesistere senza forzature con i protagonisti e le disavventure alle quali vanno incontro.

Come ogni favola che si rispetti, Nuage è un prodotto romantico, che abbandona ben presto il raziocinio (per quanto, come abbiamo detto in precedenza, non vi sia un rilascio totale della logica, ennesima dimostrazione di come Betbeder non sia un regista alla ricerca esclusiva della sorpresa e della meraviglia) per affidarsi ai saliscendi emotivi dei personaggi. Anche per questo non abbiamo trovato pretestuoso, come in altri casi, il ricorso alla citazione cinefila che Betbeder fa – seppur nel fuori campo – facendoci sentire i dialoghi di Lancelot du Lac di Robert Bresson; ci è sembrato qualcosa di più della semplice levata di cappello di un ragazzo alle prime armi verso uno dei maestri del cinema tout court, proprio in virtù delle riflessioni sull’utilizzo dell’ambiente e della fabula che abbiamo avuto modo di abbozzare poc’anzi.
Anche Bresson, come il resto degli utensili della pellicola (non sapremmo trovare sostantivo capace di fotografare meglio l’insieme degli oggetti di cui è disseminata l’opera), si adatta con fluidità e naturalezza al contesto, al paesaggio, all’atmosfera, diventandone parte integrante.
Attendevamo dall’inizio del festival un film che sapesse gettare uno sguardo innovativo e fuori dagli schemi sul tema della solitudine, dell’abbandono e della dispersione, e con Nuage l’abbiamo finalmente trovato; un’opera prima di siffatto valore potrebbe far ipotizzare futuri più che rosei per Betbeder, perché non è facile trovarsi davanti a un lavoro compiuto e maturo come quello che ha portato a termine.
Tra l’altro scopriamo dalle note biografiche che ha anche avuto dei signori maestri (Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Robert Kramer) e segnaliamo la splendida colonna sonora a opera di Sylvain Chauveau, a nostro parere il massimo compositore contemporaneo – non concordate? Andate a riscoprire lavori come Nocturne impalpable, Le Livre noir du capitalisme e Un autre Decembre.
Serve altro?

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