Youssef Chahine è morto, viva Youssef Chahine!
La morte di Youssef Chahine, nome di punta del cinema egiziano, impoverisce il panorama internazionale di una figura fondamentale dell’arte “popolare”.
La morte di Youssef Chahine è, con ogni probabilità, una delle perdite più gravi che il cinema mondiale sia stata costretta a subire nel corso degli ultimi, luttuosi, anni. Chiariamo da subito un concetto, onde evitare possibili incomprensioni di fondo: non siamo interessati a stilare una grottesca hit parade del lutto, né ci ha mai accarezzato l’idea di dover mettere a confronto tra loro i vari episodi tragici succedutisi negli ultimi anni (alcuni nomi? Sydney Pollack, Robert Altman, Alberto Grifi, Gianni Toti, Danièle Huillet, Michelangelo Antonioni, Ingmar Bergman, Luigi Comencini: la storia del cinema sta perdendo tasselli a dir poco fondamentali). Ciò che ci sembra doveroso rimarcare, al di là di tutto, è il ruolo che un nome come quello di Chahine ricopriva, con il suo solo esistere: l’Africa, da sempre il continente più oscuro per buona parte della cinefilia occidentale, foresta nera nella quale pare impossibile non perdere la retta via, può infatti contare su uno sparuto novero di personalità riconosciute anche al di fuori dei meri contesti nazionali. Fra queste figure, quella di Chahine poteva indubbiamente contare su un curriculum artistico impossibile da confutare: un Orso d’Argento al Festival di Berlino (nel 1979 per Iskanderija… lih?/Alexandria, Why?), un François Chalais Award a Cannes (nel 1999 per L’autre), un Tanit d’Oro al Festival di Cartagine (nel 1970 per al-Ikhtiyar/The Choice), e poi la presenza nel concorso ufficiale a Berlino (2 volte), Cannes (3 volte) e Venezia (una sola volta, lo scorso anno con Chaos). Insomma, il rischio forte è che con la morte di questo maestro del cinema nordafricano, da alcuni soprannominato il “Fellini egiziano” – rimando interessante, che almeno in parte coglie perfettamente nel segno il rapporto con la messa in scena del cineasta -, arrivi a inaridirsi ulteriormente il rapporto tra l’Europa e il cinema africano.
Ma queste sono previsioni che, seppur basate su un’analisi accurata, probabilmente lasciano il tempo che trovano. Spostiamo dunque il centro del nostro discorso sulla carriera artistica di Chahine, ripartendo proprio dalla già citata sovrimpressione critica tra il suo volto e quello di Federico Fellini; solitamente questo accostamento viene giustificato da quattro opere, tra loro estremamente legate, nelle quali Chahine ha riversato una serie di notazioni autobiografiche. In Iskanderija… lih?/Alexandria, Why?, Hadduta misrija/An Egyptian Story, Iskanderija, kaman oue kaman/Alexandria Again and Forever e Alexandrie… New York, viene scandagliata dall’infanzia alla vecchiaia la vita di Yehia, palese alter ego del regista (che non a caso in Alexandria Again and Forever interpreta il ruolo del protagonista); si assiste a una messa in scena che alterna la realtà e la finzione, finendo ben presto per sovrapporle l’una all’altra. In Alexandria Again and Forever si passa senza troppa soluzione di continuità da uno sciopero generale degli attori, al set di una riduzione cinematografica dell’Amleto, con Chahine che getta al vento qualsiasi convenzione spaziando dal musical classico a divagazioni in odore di Bollywood, in un processo cinematografico che effettivamente può apparire come la riproposizione, in chiave popolare, di 8½. Perché, se c’è un punto che ci preme sottolineare, e che crediamo sia stato clamorosamente saltato da buona parte della critica nostrana, è la declinazione spudoratamente popolare del cinema di Chahine, in un contesto in cui il termine è da leggere nell’ottica più ampia possibile.
Come si ebbe modo di scrivere già al tempo della sortita lidense di Chaos, l’accezione popolare nel cinema di Chahine è quella di un continuo ed esasperante attacco agli umori più densi del pubblico: non esiste un reale filtro intellettuale, ma si lavora costantemente di pancia, attraverso una messa in scena che arriva a sfruttare le dinamiche più usurate della prassi narrativa. È così che le opere di Chahine fiammeggiano di bagliori melodrammatici, si affidano a ritmiche tipiche del feuilleton, non hanno paura di mettere in mostra il lato più violento e barbarico della società che stanno fotografando (e, nel riscoprire un capolavoro come Bab el Hadid/Cairo Station, del 1958, soffermatevi a pensare a cosa potesse significare, per uno spettatore egiziano – ma non solo – della fine degli anni Cinquanta, trovarsi di fronte a una tale serie di efferatezze), in un lavoro di accumulo che non vive mai stasi né rallentamenti. Questo approccio non viene mai abbandonato, anche quando si torna a ragionare da vicino sull’essenza del cinema, come nell’affascinante ma inconcluso Skoot hansawwar/Silence… We’re Rolling (2001), o come quando si prende di petto la storia della propria cultura come in Saladino (1963, uno dei pochi film di Chahine arrivati in Italia), e, soprattutto, nello splendido Il destino (1997), straordinaria rievocazione della figura di Averroé che serve ad attaccare da vicino il fondamentalismo islamico colpevole, nell’interpretazione del cineasta egiziano, di aver svilito e deturpato la filosofia alla base dell’Islam. Ma, per avere una reale visione d’insieme dell’arte di Chahine, sarebbe indispensabile recuperare, ancor prima di episodi eccelsi come Il destino, tutta quella messe di opere a cavallo tra gli esordi e la prima metà degli anni Settanta: è in questo lasso di tempo che il cinema di Chahine mostra il volto maggiormente vitale, quello attaccato alla barbarica realtà eppure anche quello allo stesso tempo in grado di deformarla, tenderla fino alle estreme conseguenze, esagerarla. Titoli come Siraa Fil-Mina/Dark Waters, Djamilah, La terra, rappresentano il meglio del cinema egiziano di quegli anni, e permettono alle qualità di Chahine di invadere lo schermo in maniera deflagrante, influenzando intere generazioni di cineasti, non solo egiziani. Perché se è vero che il cinema di Chahine continua a essere d’esempio per buona parte delle produzioni de Il Cairo (valga come esempio quello di Omaret yakobean/Yacoubian Building di Marwan Hamed, che nella sua fotografia d’interno di un palazzo al centro della capitale rimanda direttamente ai tipi descritti da Chahine nelle sue opere migliori), è altrettanto vero che un cineasta detito alla commedia in odore di surreale come Aki Kaurismäki l’ha omaggiato inserendo Cairo Station tra i titoli a lui indispensabili durante la retrospettiva dedicata al regista finlandese al Festival di Locarno del 2006.
Speriamo allora che sia possibile finalmente comprendere appieno le parole con le quali abbiamo aperto quest’analisi post-mortem di un regista a suo modo unico e imprescindibile: un autore ancora tutto da scoprire, soprattutto per i cinefili italiani. Che le lacrime di coccodrillo inizino anche a scendere… Chahine è morto! Viva Chahine!