Festival di Roma 2008 – Bilancio
Lasciandoci alle spalle anche la terza edizione del Festival Internazionale del Film di Roma (tralasciamo la già nota querelle sul cambio di denominazione), ci troviamo assediati da un esercito di aneddoti, dubbi, ipotesi, prese di posizione: in appena dieci giorni, la kermesse capitolina è riuscita a condensare al suo interno praticamente tutto e il contrario di tutto. Ma andiamo per gradi.
Precisiamo da subito un punto che ci sembra essenziale: cercheremo di concentrarci, in questa sede, in particolar modo sulla selezione davanti alla quale siamo stati posti dalla direzione del festival, analizzandola da vicino. Ciononostante, è impossibile non rimarcare alcune debolezze strutturali che il Festival di Roma continua a evidenziare: sarà stato anche gettato un malocchio estremamente potente sull’evento, ma le intemperie che si sono abbattute sull’auditorium da metà festival in poi hanno reso palese la totale mancanza di strutture adeguate. La Salacinema IKEA, dove si teneva una buona parte delle anteprime stampa – oltre a proiezioni di Alice nella città e del focus sul cinema brasiliano contemporaneo – ha seriamente rischiato di crollare sotto l’attacco dei venti e della pioggia: non esageriamo nell’affermare che durante la proiezione di Missing di Tsui Hark siamo stati tentati dall’idea della fuga (istigati in questo anche da colleghi di altre testate), e se abbiamo deciso di rimanere dove ci trovavamo è stato solo per scrupolo professionale. I giorni seguenti, comunque, abbiamo signorilmente evitato di sederci nei posti centrali, soprattutto dopo aver notato i sostegni metallici posti accanto alle luci traballare pericolosamente. Non parliamo poi dello stato del manto stradale, trasformatosi ben presto in una melmosa piscina a cielo aperto, con gli accreditati costretti a saltellare da una parte all’altra per evitare le insidie delle pozzanghere.
Al di là del resoconto da survivor metropolitani, ci sembra giusto rimarcare anche alcune manchevolezze gestionali: tra le altre, maschere che non sempre sapevano se e come potevi accedere alla sala (vi risparmiamo il penoso sketch di cui siamo stati incolpevoli protagonisti durante la fila per entrare nella Casa del Cinema, dove si teneva la proiezione del divertente Astrópía di Gunnar B. Gudmundsson), bagni inaccessibili subito prima delle proiezioni dei film – non sarebbe più comodo spostare lo sbigliettamento nella zona immediatamente seguente ai gabinetti? -, sala stampa chiusa durante il giorno delle repliche dei vincitori. Insomma, c’è ancora bisogno di aggiustare la mira, se si vuole trascinare il Festival di Roma accanto a realtà decisamente meglio organizzate.
Ma passiamo ai film, ovvero le gioie e i dolori di questa rassegna cinematografica: si era discusso ampiamente, una volta svelato il programma definitivo del festival, sulle scelte operate dai selezionatori. Molti avevano accusato apertamente Gian Luigi Rondi e il suo entourage di aver messo in piedi un festival provinciale, del tutto staccato da quell’internazionalità che invece campeggia ancora sul logo ufficiale. Effettivamente la scelta di dare spazio a ventuno film italiani era da subito apparsa come una sorta di suicidio dichiarato; a bocce ferme non possiamo che rimanere della stessa opinione: non basta infatti aver apprezzato l’Edoardo Winspeare di Galantuomini, importante segnale di svolta dopo il passo falso de Il miracolo o essere stati testimoni dell’ennesima dimostrazione di classe recitativa di Elio Germano ne Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari, quando si dovevano fronteggiare i vari Un gioco da ragazze, Parlami di me e L’uomo che ama. Le produzioni nostrane più interessanti le abbiamo ritrovate nelle sezioni collaterali: da qui arrivano i bei documentari L’ora d’amore del duo Andrea Appetito/Christian Carmosino e Via Selmi, 72 – Cinemastation del trittico Giuseppe Cacace/Mauro Diciocia/Anthony Ettorre, il dramma apolide Il prossimo tuo di Anne Riitta Ciccone, l’astuta commedia corale Aspettando il sole di Ago Panini.
Nel concorso è probabilmente venuto a mancare l’asso pigliatutto, l’opera palesemente “oltre” che potesse fare mambassa di premi, come invece era accaduto nelle passate edizioni (I giardini in autunno di Otar Iosseliani, This is England di Shane Meadows e Nightmare Detective di Shinya Tsukamoto nel 2006, Juno di Jason Reitman e Before the Devil Knows You’re Dead di Sidney Lumet l’anno scorso): il livello è stato decisamente medio, pur con punte di estremo interesse, come El artista o il premiato Opium War. Laddove il festival è venuto davvero a mancare, semmai, è stata nella scelta delle pellicole che avrebbero dovuto mostrare l’anima più popolare e “di pancia” della manifestazione: passare dai fasti dei vari Coppola, Penn, Nolan e Scorsese al fastidioso e stanco RocknRolla di Guy Ritchie o al catastrofico Il sangue dei vinti di Michele Soavi non è certo facile. Certo, permangono belle (ottime) sorprese quali Appaloosa di Ed Harris, Pride and Glory di Gavin O’Connor e il divertente Easy Virtue di Stephan Elliott, ma il panorama si sta decisamente inaridendo.
Per trovare nuova linfa bisogna dunque ricorrere a Extra e ad Alice nella città: da sempre polmoni verdi del festival, le due sezioni non hanno minimamente tradito le aspettative, mettendo sul piatto della bilancia alcune delle perle più luccicanti dell’intera kermesse. Qui è nascosta, a nostro modo di vedere, la scintilla dalla quale bisognerebbe partire per rendere finalmente il Festival di Roma un evento imperdibile del calendario lunare: perché è solo in Extra e in Alice che abbiamo davvero notato la spinta verso la ricerca, la volontà di confrontarsi con il nuovo, di percorrere il tracciato meno battuto, di non affidarsi alla prassi. Lo stanno lì a testimoniare opere come L’Heure d’été di Olivier Assayas (nostro personalissimo vincitore morale del festival), $ 9.99 di Tatia Rosenthal, LOL di Lisa Azuelos, Martyrs di Pascal Laugier, Only di Ingrid Veninger e Simon Reynolds, Baghead dei Duplass Bros. e Rembrandt’s J’accuse di Peter Greenaway.
La terza edizione del Festival del Film di Roma è stata chiaramente il palesamento di una transizione: il cantiere è ancora aperto, ci sono tuttora falle da otturare, la speranza è che questo evento possa vivere e respirare al di là di tutti i giochi politici che gli ruotano attorno. Staremo a vedere…