La canzone più triste del mondo

La canzone più triste del mondo

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È una nota lieta la notizia dell’uscita in dvd per mano della Fandango de La canzone più triste del mondo, il film del canadese Guy Maddin distribuito nelle sale italiane con ben cinque anni di ritardo e già apprezzato nelle nostre pagine. È quindi un’altra occasione, una porta che si apre (e magari non se ne avranno anche altre di occasioni per un regista così sperimentale) su un mondo a parte, su un laboratorio di immagini, qui in una forma cui la narrazione fa da buon supporto rispetto ai lavori precedenti (oltretutto con la presenza accattivante per il grande pubblico della bella Isabella Rossellini).

È quindi ben visibile la storia de La canzone più triste del mondo con i suoi connotati romanzeschi, si direbbe classici, visti anche i rimandi al cinema anni quaranta, sia visivi che nei dialoghi, ma anche all’espressionismo tedesco nel sapiente eccesso interpretativo e nei primi piani. Un triangolo amoroso la cui cornice (ma si potrebbe anche dire il cuore del film, tanto più che occorre sottolineare che forma e contenuto sono molto vincolati in Maddin) è un festival nella città di Winnipeg, in Canada, dove gruppi musicali da tutto il mondo si radunano per vincere il premio per la canzone più triste del mondo. È con malinconico umorismo che assistiamo a questo turbinio in cui suoni e musiche di ogni genere si inseriscono in ambienti nebulosi (sarebbe il caso di dire nebbiosi): un bianco e nero notturno nella neve che si percepisce sempre come qualcosa di conosciuto ma inafferrabile, e ciò anche nei volti degli eccellenti attori sempre molto famigliari ma allo stesso tempo prestati a personaggi che sconfinano nell’assurdo, seppure ciascuno dotato di grande umanità e tristezza. Con questa mirabile unione di elementi si addolcisce (rispetto alla vita, non si parla di patina) la sperimentazione di Maddin, e senza dubbio ad aiutare è anche la scelta della lingua originale per cui ogni canzone si può assaporare dalle voci degli attori, specie quella sottile di una sublime Maria de Medeiros.

In un esempio di cinema che vive per l’invenzione visiva, è quanto mai interessante ed esaustivo il making of del film: un misto di artigianalità e arditezza intellettuale si intravede nella sperimentazioni di luci, scenografie e costruzione dell’inquadratura. E dove dunque c’è l’anima imperfetta e vitale di tutta l’opera di Maddin, ma anche come il suo eccentrico talento riesca a trovarsi a proprio agio con il low budget. Inoltre è interessante vedere come viene percepito un film assolutamente stravolgente a livello realistico (inteso anche come realtà del set) dagli attori nel suo svolgersi.
La conoscenza col geniale autore si avvale anche di tre cortometraggi: Sissy Boy Slap Party, Sombra Dolorosa e A Trip To The Orphanage, che danno una maggiore vastità della cifra stilistica di un autore che è attivo non da pochi anni, ma da più di un ventennio. Nel primo assistiamo a un sincopato divertimento di tipo slapstick, mentre nel secondo e nel terzo (che hanno la particolarità di essere muti con didascalie, una scelta che torna spesso nell’intera opera del regista) si staccano sostanzialmente due segmenti del film principale in due frammenti paralleli, in cui (specie in Sombra Dolorosa) il tragicomico che si condensa in soli quattro minuti è, come dice Maddin, «un’altra occasione per agguantare la triste vita del cuore della commedia umana».

Info
Il trailer de La canzone più triste del mondo.

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