In the Name of the King

In the Name of the King

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Alle prese con una produzione ambiziosa nelle intenzioni e nel cast, Uwe Boll conferma con In the Name of the King tutti i limiti di un cinema che insegue continuamente l’apice narrativo, l’eccesso della messa in scena, della recitazione, della colonna sonora. Da salvare in fin dei conti la prova del granitico Jason Statham, fisico atletico e volto da duro dal cuore d’oro, costretto a misurarsi con i krug e con un copione più insidioso di mille draghi sputa fuoco.

Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere

La vita di un semplice contadino e gran lavoratore di nome Farmer sta per cambiare per sempre. Una banda di assassini, i Krug – brutali esseri guidati da un demoniaco stregone – arriva a Stonebridge, dando inizio a un vortice di violenza: saccheggiano il villaggio, uccidono alcuni abitanti, tra cui anche il figlio di Farmer, e rapiscono sua moglie Solana. Farmer, pur essendo sempre stato pacifico e amorevole, spinto dal dolore, decide di vendicarsi e, assieme al suo mentore Norick e suo cognato Bastian, si muove all’inseguimento dell’esercito Krug per liberare Solana… [sinossi]
E a lui non valse a niente il sangue sui castelli
or sua la spada e il sole sul viso dei duelli
quando sentì di dire di dover dire sì
con un cavallo e l’acqua fu cacciato di lì.
La leggenda di Olaf – Roberto Vecchioni

Considerato da molti uno dei peggiori cineasti in circolazione, l’inarrestabile Uwe Boll ha un ritmo produttivo sorprendente – ci azzardiamo a definirlo eccessivo. Non conosce pause di riflessione. Dieci i titoli previsti tra 2009 e 2010: Zombie Massacre, BloodRayne 3: Warhammer, Sabotage 1943, Silent Night in Algona e via discorrendo. Il regista-sceneggiatore-produttore tedesco, oltre ad accumulare feroci stroncature, gode comunque di una discreta celebrità grazie a titoli di un certo richiamo, seppur pessimi, e a una sorta di consacrazione al rovescio: più che indicativo in questo senso il recente Razzie Award alla carriera – «La risposta tedesca a Ed Wood». Ironie a parte, l’accostamento al bizzarro Edward D. Wood Jr. (Glen or Glenda, Plan 9 from Outer Space) appare alquanto fuorviante, visti i mezzi tecnici ed economici a disposizione di Boll e la sua schematica adesione al cinema di genere. Sessanta milioni di euro di budget per lo sconquassato In the Name of the King non sono pochi.

Alle prese con una produzione ambiziosa nelle intenzioni e nel cast, Uwe Boll conferma con In the Name of the King tutti i limiti di un cinema che insegue continuamente l’apice narrativo, l’eccesso della messa in scena, della recitazione, della colonna sonora – BloodRayne, Far Cry, Postal, Alone in the Dark e via discorrendo. Prima ancora dei palesi difetti di scrittura, altra costante dei titoli firmati dallo stacanovista teutonico, sembra mancare una coerenza visiva, ancor più evidente nel momento in cui la macchina da presa si placa dopo l’indigestione di dolly et similia: nella staticità Boll si smarrisce, mostrando una composizione dell’inquadratura poco curata, spesso dozzinale. Terminate le scene di combattimento (la lunga battaglia ha comunque buoni momenti), si esaurisce l’ispirazione del regista tedesco, poco propenso a gestire sequenze non d’azione: il drammatico confronto tra il protagonista e il Re, non solo per la poco convincente performance di uno spaesato Burt Reynolds, è un lampante esempio dei gravi limiti di In the Name of the King.

Alla sommaria messa in scena si aggiunge un apparato di effetti speciali non sempre all’altezza (la computer grafica è spesso un’arma a doppio taglio) e soprattutto un quasi totale disinteresse nei confronti del binomio personaggio-interprete. Già tagliati con l’accetta e sacrificati da una sceneggiatura che dedica pochi istanti allo sviluppo psicologico dei personaggi, i vari Solana, Fallow, Muriella, Gallian, Konreid e tutto il resto della compagnia sono affidati a un cast male assortito e quasi sempre sopra le righe: Reynolds e il malcapitato Ray Liotta ci hanno fatto tornare in mente la Carrie Fisher di The Time Guardian; Matthew Lillard non ha mai smesso di rifare il nevrotico Stuart Macher di Scream.

Sommando un po’ di cliché fantasy, un budget abbastanza sostanzioso, un cast in vacanza, una sceneggiatura che arranca per centoventisette minuti, qualche acrobazia di scuola orientale e delle strambe amazzoni dei boschi appese a improbabili liane, Uwe Boll continua a proporre la sua personale visione del cinema commerciale, fatta di grana grossa, mdp frenetica, musica incessante e tutto quel che segue. Una conferma, seppur negativa.
Da salvare, in fin dei conti, la prova del granitico Jason Statham (Snatch, The Italian Job), fisico atletico e volto da duro dal cuore d’oro, costretto a misurarsi con i krug, scagnozzi cartonati di un Ray Liotta lontano anni luce da Quei bravi ragazzi, e con un copione più insidioso di mille draghi sputa fuoco.

Info
Il trailer originale di In the Name of the King.
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