Departures

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Vincitore dell’edizione 2009 del Far East, e dell’Oscar per il miglior film straniero, Departures rischia di essere valutato oltre i propri meriti, quelli di un buon film, solido e classico.

Morte e pianto rituale

In seguito allo scioglimento dell’orchestra di cui è uno dei violoncellisti, Daigo Kobayashi decide di tornare con la moglie al suo paese natio per andare ad abitare nella casa in cui è cresciuto da solo con la madre (il padre li abbandonò quando Daigo aveva cinque anni) e che la donna gli ha lasciato in eredità. Qui viene contattato da un nonkanshi, un professionista che lava e riveste i defunti per prepararli alla cremazione, che gli offre un impiego come assistente: inizialmente Daigo è titubante, ma dopo aver accettato l’incarico si rende conto del significato simbolico e morale del ruolo, diventando assai apprezzato. Questo lo farà andare incontro a non pochi problemi con la consorte, che non riesce a comprendere il perché di una scelta simile, e all’intera comunità che lo considera un mestiere degradante; per Daigo arriverà il momento delle scelte… [sinossi]

Apriamo questo spazio critico dedicato a Okuribito/Departures, forse il film più atteso all’XI edizione del Far East Film Festival, innescando una piccola polemica contro l’assegnazione dell’Oscar come miglior film straniero. Nell’agire in questa direzione vorremmo però evitare di essere fraintesi: la nostra non sarà la solita reprimenda piena di rancore verso chi non ha avuto il “coraggio” di premiare i vari Gomorra o Valzer con Bashir, perché francamente si tratterebbe di un comportamento a dir poco ozioso. Più che altro riteniamo giusto sottolineare, con un ché di sgomento e di incredulità, come Departures sia solo il quarto film giapponese a ottenere la statuetta dorata nell’intera storia dell’Oscar, dopo Rashomon di Akira Kurosawa, La porta dell’inferno di Teinosuke Kinugasa e Miyamoto Musashi di Hiroshi Inagaki (tutti e tre compresi tra il 1952 e il 1956, periodo che va dalla fine ufficiale dell’occupazione statunitense all’ingresso nelle Nazioni Unite, e vinti in un periodo in cui il premio era ancora in una fase sperimentale): l’ultima nomination risaliva al 2003, quando a rimanere a bocca asciutta fu il bellissimo The Twilight Samurai di Yoji Yamada.

È dunque partendo da questo dato, semmai, che non riusciamo a comprendere gli oceani di inchiostro e i peana di cui è stato reso protagonista il quinto film di Takita: intendiamoci, si tratta di un’opera mediamente ben diretta, senza dubbio in grado di commuovere in profondità lo spettatore, recitata con estrema classe, ma da qui a metterlo sullo stesso piano dei numerosi capolavori che hanno affollato il cinema nipponico negli ultimi sessant’anni – che non segnaliamo in questa sede per fin troppo evidenti problemi legati allo spazio – ce ne corre.
Come avrete potuto notare tranquillamente, l’impianto narrativo studiato da Kundo Koyama, autore della sceneggiatura, segue perfettamente i dettami classici di scrittura: il percorso di crescita morale e di maturazione di Daigo procede attraverso un’ininterrotta sequela di ostacoli da superare. È lo stesso personaggio protagonista a parlare del ritorno a casa come del “punto di svolta”, e non si può certo affermare che Takita cerchi di nascondere i reali intenti di Departures al suo pubblico: l’azione al contrario procede in alcuni momenti perfino in maniera eccessivamente meccanica, neanche fosse necessario rispettare un ritmo costante per non svicolare dalle regole.
Ed è proprio questa meccanica della scrittura ad aver lasciato più dubbi, durante e dopo la visione del film: laddove Departures riesce a colpire il bersaglio nella lettura di desideri e paure che sono propri di qualsiasi essere umano, e nella messa in scena di un microcosmo del tutto disabitato dal cinema contemporaneo – in cui raramente la morte viene interpretata nella sua funzione più semplice, quella di “termine della vita”, senza ricorrere a stratagemmi effettistici che di fatto ne inficiano la normalità -, quando si tratta di affrontare le dinamiche relazionali e di far procedere il racconto, diventano evidenti alcuni dei difetti della pellicola. Per esempio, a un incipit convincente e a un finale riscattato da un pathos in grado di coinvolgere anche i cuori più pietrificati, fa da contraltare un lungo segmento centrale eccessivamente statico, che prima inceppa il marchingegno narrativo e poi frana nella lunga digressione musicale che vorrebbe segnalare al pubblico lo scorrere del tempo: le immagini di Daigo che suona il violoncello in mezzo ai prati, circondato da montagne e animali, sono francamente di cattivo gusto, caduta di stile di una regia per il resto rimarchevole. In base a quanto detto, dovrebbe anche essere diventata più chiara la motivazione che ha spinto l’Academy ad assegnare a Takita il prezioso riconoscimento – anticipato da una messe di premi vinti in patria e in giro per il mondo – : nella sua perfetta parabola umana di caduta e rinascita, nonché di accettazione della propria memoria e della propria storia, Departures è un film che da un certo punto di vista si potrebbe definire hollywoodiano, per quanto la componente antropologica e sociale a cui fa riferimento sia intrisa fin nei minimi dettagli di cultura giapponese.

Ribadiamo anche come non ci sia nulla di male in ciò che abbiamo appena scritto: Takita, altrove regista che non definiremmo indimenticabile (e siamo davvero curiosi di capire cosa possa aver tirato fuori dalla versione live action dell’anime Sanpei), sforna senza dubbio la sua creatura migliore, la più compatta ed evocativa. Mette sul piatto della bilancia un carico di emozioni e di pulsioni naturali con le quali diventa veramente arduo non empatizzare, e affronta l’estrema nemica da un punto di vista effettivamente originale.
Tutti elementi propri di un buon film, quale Departures in realtà è: continuiamo a restare sorpresi quando ci imbattiamo nei commenti iperbolici di chi grida al capolavoro, al film inimitabile, all’opera definitiva del cinema giapponese, anche se ammettiamo di averci oramai fatto il callo. E di fronte all’ozio di una diatriba di questo tipo, preferiamo soprassedere.

Info
Il trailer di Departures.
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