Il profeta

Il profeta

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Giunto al quinto lungometraggio da regista, Jacques Audiard firma con Il profeta il suo lavoro più ambizioso, ma allo stesso tempo anche il più convincente. Un noir carcerario duro e tesissimo. Tra i più seri candidati alla vittoria della Palma d’Oro.

La nuova pelle del lupo

Condannato a sei anni di prigione, Malik El Djebena non sa né leggere né scrivere. Solo al mondo, appare più giovane e fragile degli altri detenuti. A prenderlo sotto la sua ala protettrice sono un gruppo di prigionieri corsi che gli insegnano tutti i trucchi per sopravvivere. Malik sfrutta, però, tutto quello che ha appreso a suo vantaggio facendosi amici i musulmani, l’altro clan del carcere. Quando esploderà una guerra tra i due gruppi, Malik dovrà decidere da che parte stare. [sinossi]

Jacques Audiard, al quinto lungometraggio, realizza il suo film più convincente e, probabilmente, segna una svolta decisiva in quest’edizione del Festival ancora piuttosto incerta. Un prophète (Il profeta per la distribuzione italiana) non è solo la storia di un’iniziazione criminale e della folgorante ascesa di un nuovo giovane boss. È una vera e propria parabola sulla necessità dell’apprendimento e dell’evoluzione. Il segreto della sopravvivenza è nella metamorfosi. Crescere, cambiar pelle, attendere che la mutazione giunga al compimento, per poi colpire la vittima, il nemico al primo segno di debolezza. La preda deve farsi predatore. Ma non basta ancora. Occorre qualcosa in più. Una dote misteriosa che permetta di vedere prima le cose, i movimenti, le direzioni da prendere e quelle da evitare, una dote che consenta di predire il corso degli eventi. È la chiave del controllo. Il predatore deve divenir profeta.

Il fascino sottile e pericoloso della storia di Malik El Djebena è tutto qui. Un pivellino di diciannove anni, condannato a soccombere, a lasciar la pelle in carcere, riesce a farsi strada tra temibili bande di corsi e fanatiche gang di maghrebini. Vivere “nascostamente”, imparare tutto il possibile, condividere il gergo per conquistare la fiducia,  andare avanti mirando sempre a un’orizzonte più ampio delle quattro mura del carcere, della sterile prospettiva di una vita da gregario.

Dopo aver costeggiato il noir (Sulle mie labbra), Audiard s’immerge dalla testa ai piedi nel milieu, grazie anche alla sceneggiatura a orologeria di Abdel Raouf Dafri, che dopo il successo di Nemico pubblico n.1, appare sempre più come l’ultimo vero depositario dei segreti della ‘mala’ francese. Ci riaffacciamo al mondo di Jean-Pierre Melville e Josè Giovanni, di Gabin, Ventura e Delon, dei romanzi di Jean-Claude Izzo, in cui la multirazzialità del milieu è già la percezione di una dimensione globalizzata del crimine. Ma qui, ormai, non c’è più traccia del mito, di quel romanticismo irraggiungibile del polar. I codici d’onore sono scomparsi, la vecchia generazione degli “uomini” è tramontata e i truands non parlano più la stessa lingua. Le uniche regole rimaste servono solo a tracciare e difendere le linee di una struttura gerarchica, di un potere che ambisce, invano, all’eternità. Sono queste le dinamiche che interessano ad Audiard: raccontarte il conflitto senza onore e senza umanità (per dirla alla Fukasaku) tra le vecchie e le nuove generazioni, percepire quello sgretolamento della piramide, della struttura apicale che inizia sempre da un movimento incontrollato delle fondamenta. Proprio quel movimento, che sconvolge le coordinate del cinema. Anche grazie a un cast eccezionale, Audiard piega ai ritmi americani la tradizione francese del genere carcerario (Il buco, sempre e comunque Giovanni, in un modo o nell’altro) e trova, magicamente, una terza via che riconduce direttamente al cuore profondo del suo cinema. Si concentra per due ore e mezza nella descrizione dell’universo chiuso di una prigione, ma lascia sempre intravedere ciò che si agita oltre le mura, puntando sempre lo sguardo su quella linea di mezzo che separa il dentro e il fuori, il prima e il dopo.

Info
Il trailer de Il profeta.

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