Nowhere Boy

Nowhere Boy

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Se a conti fatti releghiamo comunque Nowhere Boy nell’aura mediocritas della sufficienza, è soprattutto per la straordinaria verve attoriale dimostrata dall’intero cast, con una Kristin Scott Thomas ai massimi livelli, un David Morrissey come sempre inappuntabile e un gruppo di giovani virgulti che sarebbe il caso di tenere d’occhio. Ma questo, forse, da una produzione britannica è il minimo che ci si possa aspettare.

Strawberry Fields Forever

A soli cinque anni, John viene separato dalla madre e cresciuto dalla severa zia Mimi. L’infanzia del bambino è segnata dal distacco e dai silenzi della zia, imperturbabile detentrice dei segreti di famiglia. Ormai quindicenne John scopre che la madre Julia, che credeva lontana, vive ad appena qualche chilometro di distanza con la sua nuova famiglia. Julia è fonte di continue sorprese per il figlio: di carattere opposto a Mimi, gli fa scoprire il rock’n’roll e i film di Elvis, alimentando la sua passione per la musica. In quei mesi di rivelazioni e mutamenti radicali, John conosce il chitarrista Paul e, quando Julia muore d’improvviso, si lancia con lui nell’avventura dei Beatles… [sinossi]

Biopic, questo sconosciuto… a vedere Nowhere Boy, esordio alla regia per l’acclamata videoartista britannica Sam Taylor-Johnson (riconoscimenti ottenuti in giro per il mondo, a partire dalla Biennale di Venezia, esposizioni in alcuni dei più importanti musei del globo), viene naturale chiedersi quale sia la molla, l’ingranaggio nascosto che spinga un regista ad affrontare la perigliosa sfida di mettere in scena la vita – vera – di un altro essere umano. Il cinema di finzione teso alla ricostruzione della biografia di un personaggio celebre ha visto anche le migliori menti delle generazioni che si sono susseguite nella storia della settima arte inciampare, se non cadere fragorosamente (un esempio su tutti, l’Elvis Presley televisivo diretto da un John Carpenter ai minimi storici); solitamente l’assioma non scritto prevede che più è importante la figura ridotta per il grande schermo, maggiore è il rischio di un sinistro doloroso. Assunto ciò che è stato appena scritto come regola aurea, non sarà difficile comprendere quanto rischioso fosse il compito assegnato alla Taylor-Johnson e allo sceneggiatore Matt Greenhalgh: cercare di acciuffare per i capelli il John Lennon adolescente nel tentativo di raccontare i prodromi di una leggenda non è certo affare da poco.

Inutile nascondere come un’operazione di questo stampo, portata avanti con sforzo non indifferente da una cordata di produttori (da sottolineare la presenza anche della Lipsync, al lavoro anche sulla splendida trilogia televisiva di Red Riding), e scelta addirittura come film d’apertura dal Torino Film Festival targato Gianni Amelio, abbia finito per deludere le aspettative. Sconforto che fa capolino da molte e varie angolazioni, prima fra le quali l’approccio registico: se il talento artistico della Taylor-Johnson viene ovunque associato a lemmi quali “visionario” e “originale”, francamente non è molto chiaro in quale momento della lavorazione questa supposta genialità abbia abbandonato il progetto. La messa in scena di Nowhere Boy è diligente, sicuramente accurata quanto prevedibile, perfino piatta in alcune soluzioni ai limiti del basico – si veda la scelta delle inquadrature e del montaggio nella sequenza della morte della madre del povero Lennon –: è anche possibile che la quarantaduenne cineasta abbia volutamente abbandonato la sua prassi creativa per non “invadere” un campo privato e storicizzato come la storia privata della star per eccellenza della rock anglosassone degli anni sessanta, ma neanche questo potrebbe giustificare un’abiura così palese nei confronti dell’ispirazione. Non che la situazione migliori particolarmente nel volgere lo sguardo verso l’aspetto più prettamente narrativo: la storia si evolve solo ed esclusivamente per continui climax emotivi, che francamente solo in maniera sporadica riescono a trovare un riscontro empatico nello spettatore. Anche volendo tralasciare alcune scelte marcatamente didascaliche (l’indugiare della macchina da presa sulla toponomastica che svela, anche al pubblico meno beatlesiano, come ci si trovi in Strawberry Fields, l’amica della ragazza invaghita del giovane cantante che le fa notare come Lennon sia un loser, e via discorrendo), è indubbio che lo script di Nowhere Boy sia frutto di una precisa scelta di mercato. John Lennon è un prodotto da vendere anche alle giovani generazioni, e per far sì che ciò accada è indispensabile seguire determinate linee guida. Per farla breve, l’adolescenza del leader dei baronetti viene pedinata fidandosi ciecamente delle regole segnalate dal manuale di McKee. Tanto più che dei Beatles si respira davvero molto poco: e sarebbe anche comprensibile, visto il lasso di tempo su cui si incentra la pellicola, se non fosse che a mancare completamente dallo schermo sono anche i Quarrymen – prima band di Lennon, McCartney e Harrison – e, più in generale, la musica stessa. Tutto si esaurisce in un breve quanto squallido insegnamento materno che relegherebbe l’intero senso del rock al sesso, e in qualche rimando citazionista a questo o a quel cantante dei primordi.

Se a conti fatti releghiamo comunque Nowhere Boy nell’aura mediocritas della sufficienza, è soprattutto per la straordinaria verve attoriale dimostrata dall’intero cast, con una Kristin Scott Thomas ai massimi livelli, un David Morrissey come sempre inappuntabile e un gruppo di giovani virgulti che sarebbe il caso di tenere d’occhio. Ma questo, forse, da una produzione britannica è il minimo che ci si possa aspettare…

Info
Nowhere Boy sul canale YouTube Movies.
La scheda di Nowhere Boy sul sito del Torino Film Festival.
Il trailer originale di Nowhere Boy.
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