Bakal Boys

Bakal Boys

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Il cineasta filippino Ralston Jover esordisce alla regia con Bakal Boys, inserendosi nel solco già tracciato in questi anni da Brillante Mendoza, di cui è stato non a caso assistente. Un lavoro accorato che registra la realtà dei bambini e dei ragazzi che si guadagnano da vivere immergendosi in mare per recuperare ferraglia da vendere. In concorso a Torino 2009.

Pescatori di metallo

Manila. Nel quartiere periferico di Baseco, alcuni ragazzi, chiamati «Bakal Boys», si dedicano alle immersioni illegali alla ricerca di ferraglia da rivendere. Un giorno trovano un’ancora, faticosamente la recuperano dal mare e, tutti eccitati, la portano a un robivecchi. Utoy si accorge però che il suo amico Bungal non è più tra loro. Nei giorni successivi cerca disperatamente il ragazzo, ma invano. Sconvolto dalla perdita dell’amico, Utoy comincia a sentire la voce di una sirena che lo invita a gettarsi in mare. [sinossi]

Mentre in Francia (ma non solo) divampa la discussione tra i sostenitori del cinema di Raya Martin e quelli di Brillante Mendoza – polemica che si pone in apertura sia perché non rientra a conti fatti nella disamina del film in questione, sia perché si ribadisce qui la passione e il rispetto per entrambi gli autori – nel concorso ufficiale del ventisettesimo Torino Film Festival si fa largo una piccola opera prima filippina di fiction, Bakal Boys. L’autore, il quarantaquattrenne Ralston Jover, non è certo un signor nessuno per quel che concerne il cinema di Manila e dintorni: dopo aver lavorato come sceneggiatore per Jeffrey Jeturian (Kubrador, anno domini 2006) e aver legato il proprio nome al già citato Brillante Mendoza – che è stato selezionato a Torino con Kinatay, mentre il “rivale” Martin presentava lo splendido Independencia – per il quale ha scritto Manoro, Tirador e Foster Child, ha esordito alla regia l’anno scorso con il documentario Marlon.

Non è invece un documentario Bakal Boys, per quanto lo stesso regista abbia ammesso di essersi dovuto documentare a lungo prima di affrontare una pellicola così spietatamente ancorata al reale: la vita dei piccoli bakal boys, bambini che si tuffano in acqua per recuperare pezzi di ferro da rivendere a rigattieri di pochi scrupoli, prende corpo sullo schermo come se si stesse assistendo a un pedinamento. Seguendo una pratica che ha visto in Mendoza uno dei principali autori contemporanei, Jover si attacca letteralmente alle schiene di Utoy e Bungal, i suoi giovani protagonisti, seguendoli senza mai perderli di vista, con la macchina a mano che si insinua tra le baracche a ridosso del mare: sequenze che fanno tornare alla mente il claustrofobico incipit di Foster Child, quando Mendoza guidava gli spettatori tra i soffocanti viottoli di Manila sulle piste di una donna. Una versione contemporanea di quanto teorizzato da Cesare Zavattini, nome la cui esperienza artistica ha senza dubbio contribuito a formare una gran parte delle generazioni cinematografiche filippine, a partire da alcuni dei suoi padri putativi; teoria che si fa convincente pratica in Bakal Boys. Anche se il nodo cruciale intorno a cui gira la pellicola di Jover è forse da rintracciare altrove: animato da una riflessione sociale decisamente non trascurabile, come quella sullo sfruttamento del lavoro minorile (e non è certo un caso che il film abbia ricevuto a Torino il Premio Cipputi, dedicato proprio alle opere tese a indagare sul mondo del lavoro), Jover filma i suoi protagonisti senza mai vincolarli, almeno apparentemente, a una sceneggiatura di ferro. Al contrario, una volta costruita la sequenza da girare, li lascia liberi di muoversi agilmente sul set, di modo da permetter loro di sprigionare tutta la potenza della propria esistenza: quello che ne deriva è un vero e proprio pugno nello stomaco, ancor più forte e doloroso nel momento in cui viene messa in contrasto l’ingenua vitalità infantile con un universo che ha raggiunto un tale grado di abiezione – o, meglio, di disperazione – da accettare senza troppi dubbi che i propri figli e nipoti siano costretti ad affrontare un destino spesso tragico per racimolare quei due soldi che permettono alle famiglie di comprare un pezzo di pane.

Laddove Lino Brocka, Mario O’Hara o Brillante Mendoza avrebbero dato fuoco alle polveri, nel vero e proprio senso della parola, per esprimere tutto il diniego verso una situazione politica di questo tipo (si lasciano fuori dalla lista Lav Diaz e Raya Martin, autori forse ancor più politici, ma meno direttamente connessi a tematiche “popolari”), Ralston Jover opta per una divagazione vagamente onirica, cercando probabilmente di aggirare almeno in parte il problema per dar risalto in maniera ulteriore alle azioni del piccolo Uoty, impegnato nella disperata e inutile ricerca dell’amico scomparso in mare. Una scelta rispettabile, ma che impedisce a Bakal Boys di elevarsi ai livelli raggiunti dai film diretti dai colleghi sopracitati: ciononostante Bakal Boys resta un’opera essenziale e drammaticamente coinvolgente, diretta con piglio e una certa originalità da un regista di cui si attendono con impazienza le opere future. Perché di autori interessati a raccontare la realtà senza per questo perdere di vista necessariamente le potenzialità del cinema c’è e ci sarà sempre bisogno.

Info
Bakal Boys sul sito del TFF.

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