La polvere del tempo

La polvere del tempo

di

Secondo segmento della trilogia iniziata nel 2004 con La sorgente del fiume, La polvere del tempo si insinua in quel solenne tracciato spazio-temporale che pellicole di spessore forse maggiore, come Lo sguardo di Ulisse, avevano già intrapreso, distillando sofferenze stilizzate e a loro modo emblematiche nel reticolato, così dolente, tragico, cupo, dell’Europa contemporanea.

L’epica delle ombre

A, regista americano di origine greca, si reca a Cinecittà per ridare il via a un film di cui aveva improvvisamente interrotto le riprese senza fornire spiegazioni. Il film racconta la storia di Eleni, sua madre, che nella vita ha amato due uomini ed è stata a sua volta riamata nonostante la vita e le vicende politiche l’abbiano in passato separata a lungo da loro. Gli eventi che hanno segnato la seconda metà del Ventesimo Secolo, a partire dalla morte di Stalin, vengono rivisitati con trasferimenti nel tempo e nello spazio. Si passa dal Kazakistan alla Siberia, dall’Italia alla Germania agli Stati Uniti. Si tratta di un flusso di ricordi che si fanno presente mentre la vita di A. è turbata dalla separazione dalla moglie e dalla scoperta del dolore che attraversa l’animo della figlia adolescente... [sinossi]

Amato da alcuni, mal sopportato da altri, Theodoros Angelopoulos è uno di quegli autori che hanno lasciato comunque un’impronta nel cinema europeo, portando allo scoperto con uno stile ostico e ricercato, talvolta fin troppo ricercato, le profonde lacerazioni del Vecchio Continente. Per questo è un peccato che persino una filmografia prestigiosa come la sua si stia sfaldando, nel disinteresse di distributori italiani che non scommettono più su determinati registi, oppure ne acquistano i film per poi tenerli a lungo congelati. Nel caso de La polvere del tempo (I skoni tou hronou, 2008), secondo segmento della trilogia iniziata nel 2004 con La sorgente del fiume, ci siamo potuti confrontare con l’esito più recente di una poetica costellata ormai di mille inquietudini, e di umbratili malinconie, proprio grazie alla proiezione avvenuta durante l’edizione 2010 del Trieste Film Festival, con il cineasta greco a introdurre l’opera.

Propaggini di un cinema tendenzialmente apolide, mestamente ancorato all’onta di artificiosi confini tra le nazioni, fonti a loro volta di disperazione e di interminabili conflitti. Ed è così che La polvere del tempo si insinua in quel solenne tracciato spazio-temporale che pellicole di spessore forse maggiore, come Lo sguardo di Ulisse, avevano già intrapreso, distillando sofferenze stilizzate e a loro modo emblematiche nel reticolato, così dolente, tragico, cupo, dell’Europa contemporanea. Un epos popolato di ombre, ombre malinconicamente avvolte nella nebbia, nelle incrostazioni di una Storia con la esse maiuscola che assorbe e disperde le esperienze individuali. Fin quasi a dissolverle, ma a quel punto subentra la strenua resistenza dell’IO che non vuole essere cancellato, che pretende di essere ricordato ancora. Può essere che in quest’ultimo film vi sia più psicologia. Più attenzione per i rapporti inter-personali, per uno sviluppo coerente dei personaggi. Ma di fondo le figure incarnate dai vari Willem Dafoe, Bruno Ganz, Michel Piccoli, Irène Jacob, sono piccole isole nell’oceano del tempo, riflessi di parabole più ampie condivise da molti uomini e donne, da quelle masse in balia degli eventi i cui singoli rappresentanti hanno potuto sperimentare, nel corso di qualche decennio, l’instabilità dei confini e l’oppressione del potere politico, la necessità della fuga e la nostalgia dei passi perduti, l’aggressività dell’economia capitalista e lo smarrimento che capitalizza il presente. Sì, il presente, perché i protagonisti de La polvere del tempo si muovono in una realtà caratterizzata, anche a livello simbolico, dalle sagome dei viaggiatori scannerizzate (letteralmente denudate, verrebbe da dire, in una quasi farsesca parafrasi dei campi di sterminio) sui monitor dei luoghi di transito, oppure dalle tetre divise delle forze dell’ordine pronte a fare irruzione negli stabili malmessi degli immigrati. Autentico stato di polizia in fieri, prefigurato però dalle costrizioni del passato: in un incastro meta-cinematografico appena accennato (con un’altra pallida ombra, quella di Cinecittà, a fare da sfondo) la storia che un personaggio come A (Willem Dafoe), cineasta americano di origini greche, vorrebbe raccontare, coincide con quella della sua famiglia; una famiglia di comunisti greci in fuga prima dal proprio paese, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, poi dal gigante sovietico, rivelatosi meno accogliente del previsto. E a seguire il nuovo esilio in occidente, attraverso il confine austriaco, ed altri trasferimenti, altre città, altri sogni infranti. New York. La Germania. Le movimentate esistenze di Jacob (Bruno Ganz), Eleni (Irène Jacob) e Spyros (Michel Piccoli), vero melodramma congelato, appaiono come un concentrato di ricongiungimenti e forzati abbandoni, promesse mancate, timori, speranze, sacrifici personali; e cioè scorie di un vivere che, nella sua mai raggiunta completezza, continua ad essere procrastinato accumulando nel frattempo surrogati di emozioni, tali da poter essere poi sbriciolate in un singolo incontro. La precarietà della famiglia d’origine di A diviene così lo specchio di una fragilità diversa ma contigua, quella dell’altro ristretto nucleo famigliare, cui ha dato vita il protagonista. La famiglia simbolo di una società occidentale alla deriva, figlia della diaspora, è destinata a riunirsi nella Berlino di fine millennio con scompensi inevitabili nelle diverse generazioni rappresentate. In sintonia con un pessimismo che probabilmente non è mai stato, in Angelopoulos, così radicale, profondo, la gioia del ritrovarsi verrà subito compromessa da qualche mesto e definitivo addio.

La regia del greco regala come sempre scelte consapevoli e di grande forza espressiva. Si ripropongono alcune contrapposizioni topiche della sua filmografia, specie recente: ad esempio il contrasto tra l’impronta sbiadita delle figure umane perse nella foschia, quasi un indice di transitorietà, ed il carattere più materico, imponente per quanto soggetto ad altre forme di caducità, dei marmi e degli apparati scenografici della parentesi sovietica, che possono in parte ricordare simili epifanie (su tutte la magnifica sequenza della chiatta sul Danubio, con una statua enorme di Lenin a bordo) nel precedente Lo sguardo di Ulisse. In sintonia con questo senso di precarietà diffusa, l’elemento acquatico (con un fiume e una barca nuovamente in evidenza) si impone nell’epilogo berlinese, creando un legame particolarmente intenso tra i personaggi. Sempre in questa parte conclusiva, la sceneggiatura scritta da Angelopoulos con la collaborazione del connazionale Petros Markaris e dell’affezionato Tonino Guerra può apparire a tratti troppo stentorea, ma la sensazione è che il meglio lo avesse offerto prima. Del resto, sebbene attori del calibro di Willem Dafoe, Bruno Ganz, Michel Piccoli e Irène Jacob offrano, durante tutto il racconto, autentici pezzi di bravura, l’impressione è che le emozioni più vertiginose siano prodotte da alcune figure di contorno. Ne è un esempio la scena, di notevole impatto emotivo, in cui un vecchio condotto insieme ad altri sulla linea di confine tra Ungheria socialista e Austria si ferma, all’improvviso, lamentandosi di non voler proseguire oltre, di non volersi staccare del tutto dalla terra russa dove sono le sue radici. Sarà la nipotina a tornare indietro per convincerlo, con poche e semplici parole, a riprendere il cammino. Un po’ meccanicamente, sulla falsariga del motivetto al piano ripetuto ossessivamente in tutta la colonna sonora, ci si rimette in cammino, verso orizzonti quanto mai incerti.

Info
Il trailer de La polvere del tempo.

  • La-polvere-del-tempo-2008-Theo-Angelopoulos-03.jpg
  • La-polvere-del-tempo-2008-Theo-Angelopoulos-02.jpg
  • La-polvere-del-tempo-2008-Theo-Angelopoulos-01.jpg

Articoli correlati

Array