Carlos

Carlos è un’opera fluviale (5 ore e mezza) che sembra trovare per strada la propria giusta dimensione: come spesso capita in Assayas, è come se il regista transalpino partisse con la propria sceneggiatura in mano, dalla quale pare evadere pian piano, lasciandosi quasi trasportare dal mood delle riprese. Cinema in perenne movimento. Presentato al Festival di Cannes 2010.

La tranquilla esistenza di un terrorista

Carlos  è il nome in codice di Ilich Ramírez Sánchez, terrorista mercenario filo-palestinese di origini venezuelane (ma attivo più che altro in Europa), autore di alcune tra le più violente stragi degli anni ’70 e al centro di una gigantesca caccia all’uomo della polizia. Carlos è bello, prestante e furbo. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina lo prende con sé e lui fa carriera velocemente grazie al sangue freddo e al carattere, almeno fino al clamoroso assalto al quartier generale dell’OPEC nel 1975, quando riuscì a sequestrare sessanta ostaggi e scappare con loro in un DC-9 fornito dalla polizia. Quell’operazione però è anche l’inizio della fine dei rapporti con il FPLP e l’inizio della peregrinazione che nel giro di vent’anni lo porterà in carcere… [sinossi]

Realizzare un biopic senza dover per forza di cose sottostare a tutti i “ricatti” del genere. Questa la principale molla che ha spinto Olivier Assayas a confrontarsi con Carlos, pellicola che ripercorre le gesta “eroiche” del terrorista internazionale Ilich Ramírez Sánchez, venezuelano di nascita, geneticamente marxista, confluito poi nella lotta araba. Ecco perché pur essendo Carlos un film realizzato principalmente per la televisione – dietro ci sono infatti i pesanti finanziamenti di Canal , che tra l’altro sta mandando in onda praticamente in contemporanea al festival le tre puntate in cui è articolato il film – rimane tuttavia evidente l’idea di cinema che è direttamente richiamabile al proprio autore.
In tempi in cui, spesso e volentieri, anche gli autori più di successo vengono costretti a mutare (se non a mutilare) il proprio orizzonte cinematografico una volta confrontatisi con il sistema produttivo televisivo, sottostandosi supinamente ai (presunti) diktat del pubblico, già questa considerazione preliminare ci porta a valutare con aumentata stima questa nuova avventura del regista di Irma Vep e Demonlover.

Carlos è un’opera fluviale (5 ore e mezza) che sembra trovare per strada la propria giusta dimensione: come spesso capita in Assayas, è come se il regista transalpino partisse con la propria sceneggiatura in mano, dalla quale pare evadere pian piano, lasciandosi quasi trasportare dal mood delle riprese. È un cinema dunque in perenne movimento quello di Assayas, come in Boarding Gate che ad una prima parte quasi soffocata da una scrittura superficiale faceva seguito una seconda parte completamente libera, espansa nella sua narrazione, esplosa in una de-generizzazione radicale sorprendente o come in L’Heure d’été, anch’esso una poesia che prende lo spunto dopo qualche frammento di prosa, più prettamente narrativa dunque. È libero il cinema di Assayas, libero di esplorare un personaggio cinematograficamente eccezionale come quello di Carlos “The Jackal” senza debiti di riconoscenza, muovendosi completamente a suo agio tra l’invenzione pura di alcuni tratti della sua esistenza e un contrappunto realistico e documentaristico della sua vita, realizzato utilizzando con cura il footage d’archivio.
In questa dialettica vero/falso cresce il personaggio cinematografico di Carlos, a ben vedere in logica e conseguente emanazione della vera vita dello “Sciacallo” (personalità sfaccettata, pirandellianamente multiforme, con centinaia d’identità diverse sparse per il mondo), prendendo cinematograficamente forma anche grazie all’interpretazione da raging bull di Édgar Ramírez, stupefacente nella sua trasformazione fisica (quantomeno è stato all’ingrasso di una ventina di chili), arricchita anche poi da alcuni dettagli, da casualità che arricchiscono il testo filmico di tutta una serie di sotto-testi di verosimiglianza impressionanti.
Ramirez, infatti, oltre ad essere quasi omonimo del celebre terrorista, è anche venezuelano come lui: ecco perché la cosa ha suscitato l’indignazione del “vero” Carlos, il quale si è ovviamente sentito in dovere di scrivere due parole al suo connazionale: “Perché Edgar hai accettato di travisare la verità? Perché ti sei prestato a un’opera di propaganda controrivoluzionaria diffamando il più noto dei Ramirez?”. In queste poche parole è subito facile ravvisare il timore di Carlos, ovvero quello che venga sminuita la propria “immagine”, il proprio “buon nome”, che gli venga infine usurpato da un attore che si chiama come lui.

Film continuamente oltre se stesso, questo di Assayas, perennemente in bilico tra la verità a cui sembra legato tramite la vicenda biografica e la finzione che il regista ci costruisce sopra, aperto a contaminazioni di ogni genere, soprattutto quelle del “thriller astratto”; per come l’autore francese riesce al di là di ogni personaggio realmente esistente a concedergli un’indipendenza sullo schermo impressionante, con cui già aveva “dialogato” in Boarding Gate. E il miracolo di Carlos è tutto qui, nell’aver ridisegnato i confini del biopic, costruendo questo eroe postmoderno e globalizzato, il primo forse della nostra epoca, continuamente “intrappolato”, lui che sembrava fosse impossibile acciuffare, negli aereoporti di mezzo mondo.
È proprio in questi non-luoghi che la figura di Carlos emerge e si delinea, da cacciatore a preda, da burattinaio a marionetta dei servizi segreti di mezzo mondo, da eroe del mondo arabo a ingombrante fardello di cui liberarsi il prima possibile. Eccolo Carlos, eroe romantico, circondato da belle donne, sempre con il sigaro in bocca (“riserva personale di Castro” afferma entusiasta). Una figura magicamente reale che aspetta la morte (come il dead man walking di Soderbergh, il Guevara di Che: Guerriglia…) godendosi però la vita, come fosse fuori dal tempo come se non avesse obblighi terreni a cui sottostare, che Assayas si diverte spesso a escludere dall’azione (messa spesso in secondo piano o in campo lungo) e a costringerlo a reiterare la propria (stra)ordinaria esistenza nel breve spazio dell’inquadratura. Quello di Assayas è un cinema intimamente moderno, teorico avamposto di uno sguardo che si fa in corso d’opera.

Info
Il trailer di Carlos.
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