Avvicinarsi all’arte di Jan Švankmajer, alle invenzioni di un geniale regista che ci aiuta a lottare contro i pogrom della realtà.
Prima parte
La libertà è un’idea così bella che spaventa, profuma e ride.
Eva Švankmajerova
Vaudeville tragicomico, marionette e oggetti animati a passo uno, adorazione per il manierismo rudolfino e le sue wunderkammer, lucida e spietata critica dell’uomo e della società contemporanea attraverso la riproposizione di luoghi della vita come l’infanzia, il rapporto col cibo, la sessualità e la libertà di pensiero: sappiano i lettori di questo articolo che tutto questo e molto altro, all’insegna della libertà e dell’avanguardia, costituisce la cifra della produzione artistica, letteraria e cinematografica di Jan Švankmajer.
Ha ragione quindi Anthony Lane quando, tagliando il mondo in due, dichiara che “Il mondo si divide in due categorie di diversa ampiezza… quelli che non hanno mai sentito parlare di Jan Švankmajer e quelli che hanno visto i suoi lavori e sanno di essersi trovati faccia a faccia con un genio”.
Nato a Praga nel 1934, questo bambino praghese di umili origini succhia il clima della sua epoca: “Città per cui vagano strampalati commandos di alchimisti, di astrologhi, di rabbini, di poeti, di templari acefali, di angeli e santi barocchi, di arcimboldeschi fantocci, di marionettisti, di conciabrocche, di spazzacamini. Città aggrottata di umori stravaganti e propizia agli oroscopi, alla clownerie metafisica, alle raffiche di irrazionale, agli incontri fortuiti, ai concorsi di circostanze, alle complicità inverosimili tra fenomeni opposti, ossìa a quelle «coincidenze petrificanti» di cui discorre Breton [2]”. È la vecchia Praga descritta da Ripellino, ma è anche la città in cui tra censura e grigiore sovietico le avanguardie lottano per tenere aperti teatri e cinema, e in cui la sperimentazione è vista con sospetto; Švankmajer approda alla regia cinematografica con un cortometraggio. Con il tono furbescamente distratto che lo contraddistingue, è lui stesso a raccontare:
Casualmente ho conosciuto una persona che lavorava alla Lanterna Magica, che è un Teatro che combina l’espressione teatrale con il cinema. Questo fu il primo posto dove iniziai a lavorare con i film. Collaborai ad uno spettacolo che univa due piccoli esempi di queste due tipologie d’espressione artistica. Il film fu fatto indipendentemente rispetto alla piéce, ma ne faceva lo stesso parte. Nonostante ciò la tecnica utilizzata in quel film era la stessa usata comunemente in ogni film, così ho avuto l’opportunità di imparare il significato di: stacco, macchina da presa, illuminazione, ecc. A questo punto avevo appreso le basi del fare cinema. Per caso capitai in uno studio che aveva dei soldi per fare un corto poiché il regista se ne era andato.
Cercavano qualcuno a cui affidare la realizzazione del cortometraggio.
Così scrissi una sceneggiatura, gliela mostrai, e venne approvata. Era basata su di una mia creazione per il teatro, che non fu mai realizzata. C’erano attori mascherati e marionette; in questa maniera nacque il mio rapporto con il cinema. Il film era Poslední trik pana Schwarzewaldea a pana Edgara (L’ultimo trucco del signor Schwarzewalde e del signor Edgar). L’anno il 1964 [3].
In una scenografia minimale e surrealista, con un montaggio analogico e serratissimo, Švankmajer ci regala la prima parabola sulla vita e sull’arte; due prestigiatori umani dalla testa di cartapesta lottano “fino all’ultimo trucco”, fino alla guignolesca morte scenica, di fronte a un pubblico esaltato e mai visibile, di cui si odono solo gli applausi scroscianti. Nei lavori successivi il poliedrico regista ceco mette in scena una sinfonia per immagini, J. S. Bach: Fantasia G moll (Cecoslovacchia, 1965), e un divertissement surrealista, Gioco di pietre (Spiel mit Steinen, Austria, 1965): se nell’omaggio a Bach abbiamo ancora un personaggio umano che ci introduce al mondo magico svankmajeriano, in cui muri scrostati, tombini e cardini arrugginiti, controsoffitti e mattoni accompagnano il respiro musicale in una strabiliante entropia anarchica delle attrazioni [4], in Gioco di pietre troverete il puro gusto per l’accostamento giocoso ed evocativo dei surrealisti [5]. Le pietre giocano a conoscersi, dialogare, si scontrano e si rimodellano fino alla reciproca fagocitazione, con richiami a quello che sarà uno dei leit-motiv della sua produzione successiva, vale a dire la passione per Arcimboldo e le fantasie rudolfine [6]. Cercateli nella rete, o andate in una mediateca a scovare questi splendidi cortometraggi d’animazione. Dello stesso periodo, se volete seguire la parabola del genio boemo, troverete Il gioco della bara (Rackvikarna, Cecoslovacchia, 1966, adeguatamente tradotto in inglese come Punch and Judy) e Et cetera ( Cecoslovacchia, 1966). Nel Gioco della bara, slapstick di marionette in cui due personaggi si contendono l’amore e le attenzioni di un porcellino d’india, Švankmajer omaggia la tradizione marionettistica ceca [7]: al di là dell’uso in tutti i suoi cortometraggi e lungometraggi di marionette, burattini e pupazzi alternati con oggetti animati e attori in carne e ossa, l’artista ci rimanda alla sua personalissima visione dell’arte: “Le marionette sono saldamente ancorate nella mia morfologia mentale, e per questo nella mia opera continuo a farvi ritorno come a qualcosa che significa per me una forma di certezza con il mondo circostante. Di solito mi rifugio in loro nei momenti in cui mi sento minacciato. Costruisco insomma i miei Golem che mi devono proteggere dai pogrom della realtà [8]”.
In Et cetera preparatevi dunque a vedere tutto questo, e un frenetico gusto per la miscela della tecniche – frottage, acquarello, animazione di oggetti, disegno [9] – con la proposta di uno dei temi più cari a Švankmajer, che assieme alla moglie Eva per tutta la vita lancia moniti visuali sull’educazione repressiva e sull’esigenza di rincorrere l’idea di libertà: in questo cortometraggio di poco più di sette minuti abbiamo tre piccole parabole sull’ingabbiata condizione dell’uomo contemporaneo. Nel primo episodio, un uomo cerca di volare; nel secondo, il protagonista frusta un animale nel tentativo di domarlo, fino a che – è nella fine che trovi il principio, sembra dire tutto il corto – non si capovolgono i ruoli, ed è l’animale a dominare l’uomo; nel terzo, un uomo disegna una casa, ne traccia il contorno con una matita, e tenta di introdurvisi. Dopo vari tentativi riesce, ma ne rimane imprigionato e quando riesce ad uscire la distrugge, salvo poi voler rientrare nel momento in cui si accorge che sta arrivando una guerra [10].
Vai alla seconda parte:
Jan Švankmajer – Il cinema come Golem (2)
Note
1. Abbiamo voluto tagliar fuori da questa breve rassegna alcuni dei cortometraggi più conosciuti del cineasta ceco, che oltre ad aver ideato e diretto lungometraggi – l’ultimo sarà presentato tra pochi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia – ha goduto di una certa visibilità “commerciale” con Cibo (Jidlo, Gran Bretagna, 1992), Buio-luce-buio (Tma-svetlo-tma, Cecoslovacchia, 1989), Flora (Gran Bretagna, 1989), e Le dimensioni del dialogo (Moznosti Dialogu, Cecoslovacchia, 1982).
2. Ripellino, A., M., Praga Magica, Einaudi, Torino, 1973, p. 9.
3. Hall, W., Intervista a Jan Švankmajer, in “Animato Magazine”, luglio 1997.
4. Alonge, G., Amaducci, A., Passo uno. L’immagine animata dal cinema al digitale, cit., p. 16.
5. «Il principio di identificazione, proprio del meccanismo comunicativo del cinema di tipo hollywoodiano, viene qui sostituito da un principio non statico, di metamorfosi, di associazione, un principio basato sulla volontà di “muovere” o ri-muovere” qualcosa all’interno dei meccanismi di comprensione dello spettatore. Si tratta del principio analogico». AA.VV., Jan Švankmajer, Eva Švankmajerova, memoria dell’animazione, animazione della memoria, Mazzotta, Parma, 2004, p. 42.
6. «Scoprii il Manierismo rudolfino sul finire degli anni Sessanta. Vale a dire nel momento in cui la storia dell’arte ufficiale non vedeva di buon occhio quel periodo. Per loro l’Arcimboldo era un pittore di second’ordine (come del resto anche Von Aachen e Spranger) e il Manierismo un’arte decadente che solo riempiva il vuoto tra Rinascimento e Barocco. Solo più tardi si scoprì che il manierismo è invece uno stile particolare, autonomo, con tutto l’essenziale: un’estetica, una teoria, una filosofia (qui un grosso ruolo veniva giocato dall’alchimia), e che si trattava quasi di un primo fremito di romanticismo, che poi nei secoli successivi si sarebbe ripresentato sotto aspetti diversi. “Una pittura che parla e una poesia muta”: questa definizione, coniata all’epoca dai suoi stessi contemporanei, sembra ad esempio adattarsi perfettamente al surrealismo, quello che è il romanticismo del XX secolo. Devo però confessare che ciò che mi aveva più di tutto affascinato erano le forme “basse” di manierismo: i gabinetti di curiosità, le arti applicate, le raccolte di oggetti naturali, gli atlanti faunistici ecc. E questo “manierismo” è per me ancora oggi un’inesauribile fonte di ispirazione. Arcimboldo si è poi insediato stabilmente nel mio Pantheon, subito accanto a Lewis Carroll, a E. A. Poe, agli autori dei romanzi neri, a H. Bosch, M. Ernst, L. Buñuel e altri». AA.VV., Jan Švankmajer, Eva Švankmajerova, memoria dell’animazione, animazione della memoria, cit., p. 107.
7. O’ Pray, M., Jan Švankmajer: a Mannerist Surrealist in Hames, P., Dark Alchemy The films of Jan Švankmajer, cit., p. 68: «Il ruolo del teatro di burattini nella storia Cecoslovacca è noto. Risale al XVII secolo quando era una vera e propria forma di protesta e di rivolta contro l’impero degli Asburgo in Boemia. Il teatro di marionette e burattini ha ricoperto un ruolo fondamentale attraverso la tormentata storia della Boemia e di quella che è poi diventata la Cecoslovacchia, arrivando fino a questo secolo quando i pupazzi sono diventati degli eroi nazionali, omaggiati con un monumento costruito in loro onore a Plzen».
8. Ripellino, A., M., Praga Magica, cit., p. 157: «Che cos’è un Golem? Un uomo artificiale, d’argilla. Come l’attendente Svejk, il servo Golem è un personaggio-chiave di Praga magica. Il vocabolo ebraico “golem” (in yddish “gojlem”), che si incontra nel salmo 139, indica un rudimento, un germoglio, un embrione o piuttosto, come Ceronetti traduce “un grumo informe”: “Non ti era il mio corpo nascosto/Nel chiuso dove mi hai fatto/Giù nella terra dove mi hai tessuto/Un grumo informe i tuoi occhi mi videro [15-16]”.[…] Il concetto di “Golem” implica dunque qualcosa di incompiuto, di ruvido, di embrionale. Nel Talmud, una donna che non abbia ancora concepito, una brocca che abbia bisogno di levigatura, si addimandano “golem”. Dal significato di imperfetto e di grossolano, è breve il passo a quello di omaccio balordo e goffissimo. La creazione del Golem, questo spasso rabbinico ricalca il mito di Adamo, l’unico uomo che non uscì dal ventre materno, ma fu impastato con la polvere dallo stesso Eloim (Genesi 2.7). Si potrebbe dire che l’antico protoplasto fosse anche lui una massa informe di terra, (terra vergine), un Golem, finché Jahvé Eloim non soffiò nelle sue narici, facendone un paradisiaco hortolano. E viceversa che il Golem sia un adamo rimasto incompiuta parvenza d’argilla, senza uno spirito vitale».
9. «Alcuni oggetti viaggiano da un film all’altro, o meglio da un film alle altre forme di creazione, o al contrario dalle altre forme di creazione al film. Penso che non ci sia altro che una sola poesia e che i mezzi di espressione utilizzati per esprimere questa poesia importano poco. Che sia il cinema, la pittura, l’incisione, il collage o la ceramica, è per pigrizia professionale che utilizziamo una sola tecnica. In questo campo mi ritengo un militante surrealista». In Schmitt, B., Leclerc, M., Les Chimères des Švankmajer, documentario (Francia, 2001, 58 min.).
10. Ciccotti, E., Avanguardia e cinema in Cecoslovacchia, Bulzoni, Roma, 1989, p. 106: «Per la prima volta l’humour nero di Švankmajer si apre ad una lettura inequivocabilmente “sociale”. Attraverso tecniche narrative e stilistiche mutuate dall’Avanguardia (l’uomo-sagoma fa pensare ai manichini di Francesco Depero; la citazione di carte scientifiche e il frottage sono di derivazione surrealista, la trasformazione di elementi grafici in altri, o in oggetti, richiama gli esperimenti cinematografici del coevo McLaren) e introducendo uno dei motivi di fondo del suo cinema, che potremmo definire quello “dell’uomo chiuso in una stanza” (in questo caso una casa), Švankmajer sintetizza fulmineamente la situazione dell’uomo negli anni Sessanta. Nel periodo in cui la meccanizzazione mondiale compie un notevole balzo in avanti, il regista, con un breve film, ci traduce il senso di disagio del “nuovo” uomo posto dinanzi all’automatismo nascente di una produzione sempre più accelerata, tale da generare comportamenti ecolaici e paranoici sul piano individuale, di dominazione, da parte di chi mal usa il potere industriale, sul piano sociale (periodo di guerre, produzione di nuovi armamenti, ecc.): l’anno prima era scoppiata la guerra nel Vietnam, mentre la diffusione della “atomica” era diventata “garanzia di pace”». Non resistiamo alla tentazione di riportare l’”addio a Praga” di Ripellino, sintesi dello slavista sul clima praghese post-68: «Ora che vi si acquattano i soldati di Mosca, la grande prostituta con cui tutti i re della terra hanno fatto fornicazione (Apocalissi 17, 1-2), ora che alcuni zelanti lacché vi si danno alle crapule mentre Cristo digiuna, non vi potrò più tornare. Ora che Praga è di nuovo, come gridò Marina Ctavetaeva, “più squallida di una Pompei”, mi terranno lontano. E frattanto si è tutto confuso nella mia memoria di vecchio: alchimia e defenestrazione, salsicce e Montagna Bianca, birra di Pilsen e primavera praghese. Asserì Karl Kraus: “Austria: cella d’isolamento dove è permesso gridare”. Ah sì, tristium Vindobona. Ma oggi nemmeno un bisbiglio: troppi microfoni, troppe orecchie puntate. […] Bohumil Hrabal aveva intitolato Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare un suo libro di racconti sull’assurdità e sulle trappole del periodo staliniano. Ma la casa è di nuovo quella: angusta, afosa, gremita di trabocchetti. […] Chi è di scena oggi? Soltanto aguzzini, pagliacci maligni, robot dello sfacelo, farisei, negromanti, coadiutori del tribunale di Satana. […] Ero a Monaco il 10 giungo 1972, la sera in cui a Praga il Divadlo Za Branou (Teatro alla Porta) diede l’ultima rappresentazione. Proseguendo nella meticolosa opera di annichilimento della civiltà ceca, le teste farcite, le locuste, i marrani, che oggi governano la città vltavina, hanno chiuso questa splendida scena, diretta da Otomar Crejca e ormai cara ai teatromani di tutto il mondo. […] Quella sera a Praga il Divadlo Za branou interpretava il suo addio, il cecoviano Gabbiano, la commedia con cui il teatro d’arte di Mosca aveva iniziato un’epoca nuova nella storia dello spettacolo. Gli attori di Stanislavsky avevano pianto di gioia: nello stesso lavoro gli attori di Crejca piangevano per disperazione e per rabbia. Il loro Gabbiano stroncato strillava un requiem per Praga e per tutta la cultura europea. Torrenti di applausi squassarono per quasi un’ora il teatro. Gli spettatori, struggendosi in lacrime anch’essi, lanciavano fiori, gridavano: “Na schledanou”, Arrivederci. Ma arrivederci è un ipocrita, un guitto, un buffone, un campione di gherminelle».
Info
La filmografia di Jan Švankmajer su Imdb.