Harry Potter e i doni della morte – Parte 1

Harry Potter e i doni della morte – Parte 1

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Harry Potter e i doni della morte – Parte 1: per il gran finale la saga del mago di Hogwarts si sdoppia, senza che se ne sentisse la necessità. L’ennesima riprova di un adattamento cinematografico che sta scadendo in modo sempre più preoccupante, per colpa un po’ di tutti: produzione, sceneggiatore, regista, attori.

Alla ricerca degli Horcrux

Dopo la tragica conclusione dell’ultimo anno scolastico, gli alunni di Hogwarts si accingono a tornare a scuola. Ma questo non sarà un anno come gli altri per Harry, Ron e Hermione che si preparano alla missione per la ricerca dei rimanenti Horcrux… [sinossi]

La visione, attesa non senza spasimi nell’ultimo anno e mezzo, della prima parte del settimo e conclusivo capitolo della saga letteraria creata da J.K. Rowling, costringe lo spettatore a porsi l’interrogativo su quali fossero le strategie di marketing ipotizzate dalla Warner Bros. quando acquistò i diritti per l’adattamento sul grande schermo. All’epoca il maghetto era poco più che un bimbo, Hogwarts uno scrigno ricolmo di magiche scoperte e Tom Riddle alias Voldemort una minaccia oscura e ancora poco definita, quasi un fantasma del passato. Per la major hollywoodiana l’idea di trasformare il tutto in una macchina fabbrica-soldi in grado di riempire le sale cinematografiche di bambini adoranti deve essere apparsa davvero una formalità.
Il problema è che ogni singolo volume dell’eptalogia mutava lievemente la prospettiva: i suoi protagonisti crescevano e, il che è assai più significativo, maturavano. L’impressione che questo aspetto avesse mandato ben presto in confusione la produzione, incapace di comprendere quale fosse il target a cui fare riferimento, la si era già avuta a partire dal quarto film (Harry Potter e il Calice di fuoco di Mike Newell), quando le tragiche asperità del romanzo era state smussate fino ai limiti del possibile, cercando di relegarle in forma pressoché esclusiva alla morte di Cedric Diggory. Ma il vero punto di non ritorno, ormai è inconfutabile, è stato rappresentato dalla presa del potere (registico) da parte di David Yates a partire dall’indifendibile Harry Potter e l’Ordine della Fenice; la parziale ripresa estetica di Harry Potter e il Principe Mezzosangue aveva illuso, ma questa prima parte di Harry Potter e i doni della morte non fa che confermare i dubbi generati dalla scelta di un cineasta così poco adatto al trattamento della materia.

Regista più interessato allo stupore e al colpo di scena che all’attenta analisi dei turbamenti emotivi dei personaggi, Yates non sa palesemente in che modo mettere le mani sul materiale narrativo creato dall’ispirata penna della Rowling. Il punto da cui si dovrebbe partire per comprendere a pieno la mancanza di comprensione della saga da parte di Yates (ma anche di Steve Kloves, storico sceneggiatore di Harry Potter che film dopo film sembra aver perso per strada le coordinate necessarie per non disperdersi completamente) è con ogni probabilità legato a doppio filo a una lettura superficiale e sciatta dei sette romanzi. Nonostante una presenza piuttosto abbondante di azione, nel senso più stretto del termine (combattimenti, incantesimi, fughe improvvise e via discorrendo), i libri che raccontano l’adolescenza di Harry Potter non sono dei puri e semplici “racconti d’avventure”, e non per una questione meramente qualitativa, ma per l’approccio stesso della Rowling. Autrice particolarmente attenta alle più piccole e a tratti inafferrabili sfumature per quel che concerne la natura stessa dei protagonisti delle vicende che si trova a narrare, la Rowling ha edificato pezzo per pezzo, mattone per mattone, una vera e propria epopea umana: in fin dei conti la scintilla della magia, dello “stupefacente” (non è un caso che stupeficium sia uno degli incantesimi utilizzati in modo più continuato), è solo un addendum rispetto al vero nucleo fondante del tutto, vale a dire la paziente e certosina documentazione di una crescita umana e filosofica. L’Harry Potter dei romanzi è una sorta di anti-Peter Pan, negazione della voglia di rimanere eterno bambino ed elogio della consapevolezza adulta, acquisita attraverso una serie di passaggi formativi: le tematiche che anche nell’ultimo (e letterariamente spesso sottostimato) romanzo vengono affrontate sono quelle dell’elaborazione del lutto, dell’ineluttabilità della perdita, del confronto con il mostruoso che è in noi e dell’affermazione dell’etica sulla barbarie. A questo Harry Potter e i doni della morte aggiunge, per la prima volta all’interno della saga, la tematica prettamente fantasy della “cerca”: fuori dalle rassicuranti mura di Hogwarts, Harry, Hermione e Ron devono vagare alla ricerca degli Horcrux, le parti del proprio corpo che Voldermort ha scisso da sé per imprigionarle con la magia oscura in vari oggetti (e non solo). Questo aspetto complica ulteriormente la vita a Yates, che al momento di dover rendere “visibili” le azioni commesse dai tre protagonisti si trova costretto a ragionare su un numero di location straordinariamente superiore alla media: diventa dunque ancora più facile dimenticare per strada emozioni, pathos, gioia e sofferenza per limitarsi a un mero e francamente confusionario riepilogo di luoghi e situazioni. La prima parte di Harry Potter e i doni della morte è una rincorsa continua, e ciononostante vacua, di un’azione che di per sé non sarà mai davvero risolutiva: a che serve infatti costruire una sequenza come quella dell’ingresso sotto falsa identità al ministero della magia se poi non si ha il coraggio (o la capacità) di mettere in scena  “l’olocausto babbano” descritto nel romanzo? Quale motivo può aver spinto Kloves ad annullare uno a uno tutti quegli elementi che nel libro permettevano al lettore di empatizzare fino alle lacrime con i personaggi? Elementi essenziali vengono qui non solo dimenticati per strada, annullati o malamente riscritti (e questo è già un crimine grave), ma sono soprattutto svuotati di qualsiasi valore emotivo: l’impressione forte è che se Yates nella sceneggiatura avesse letto la morte di Ron o di Hermione (o dei Weasley, o di Hagrid ecc.ecc.) l’avrebbe eseguita sul set come se nulla fosse. Non c’è amore, non è reperibile alcuna passione, in queste due ore e mezza: solo confusione, combattimenti, morti (rari, rarissimi) e qualche pillola di ironia da utilizzare qua e là, come panacea di tutti i mali.

C’è da dire che a Yates non vengono molto in aiuto le interpretazioni dei protagonisti, sempre più impacciati nelle parti di personaggi troppo complessi per poter essere svelati al pubblico con una battuta o un colpo di bacchetta; è altrettanto vero che il regista paga gli errori commessi fin dal primo film, con una riscrittura del materiale partorito dalla Rowling talmente episodica e casuale da provocare veri e propri dissesti nel momento in cui bisogna far venire i nodi al pettine. La sequenza della trasformazione (tramite pozione polisucco) dei falsi Harry per poter ingannare i mangiamorte durante lo spostamento da Privet Drive alla Tana in questo senso è davvero esemplificativa di un peccato originale vecchio oramai di quasi un decennio: vedere Harry Potter doversi presentare a Bill Weasley (che nella realtà letteraria conosce fin dai tempi de La camera dei segreti) e a Mundungus Fletcher (nei romanzi apparso la prima volta ne L’Ordine della Fenice), ignorare la relazione tra Remus Lupin e Ninfadora Tonks, e non essere a conoscenza neanche delle prossime nozze tra Bill e Fleur è davvero qualcosa che rasenta il ridicolo, anche da un punto di vista strettamente logico – com’è possibile che Harry non conosca uno dei fratelli del suo migliore amico, visto e considerato che ha praticamente vissuto a casa Weasley per lunghi periodi?

Tutte concause, queste, della mancanza di progettualità cui si faceva riferimento all’inizio della recensione: Yates non è certo degno di un paragone con Peter Jackson, ma è davvero un peccato dover constatare soprattutto il differente lavoro di preparazione e produzione cui sono andati incontro i due monoliti fantasy. Da parte sua il regista ci mette ben poca personalità: non riesce proprio a convincere il suo sguardo, perfino rozzo e incapace dell’ariosità che meriterebbe un prodotto di questo tipo. Harry Potter e i doni della morte – Parte 1 è un film dispersivo, che corre all’impazzata ma senza una reale direzione, dando per scontati molti dettagli che in realtà erano stati epurati dai film precedenti (e che quindi risultano completamente oscuri agli spettatori che non hanno letto i romanzi) e perseguendo un’idea di asettica freddezza che davvero non può convincere e non ha scusanti. Senza scendere al livello delle aberrazioni di Harry Potter e l’Ordine della Fenice, nel quale si faceva scempio di uno dei migliori romanzi fantasy degli ultimi decenni, questa prima parte del capitolo finale delude e stanca. Perché non ha senso costruire un film di due ore e mezza (o poco meno) con il materiale che sarebbe adatto a un’opera in grado di elevarsi almeno fino alle tre ore, se non oltre: agendo così si finisce solo per semplificare fino alle estreme conseguenze e rassegnarsi al dominio del caos. Difetti questi che sono ancora una volta imputabili a una scellerata scelta produttiva: nell’edizione italiana l’ultimo capitolo delle avventure di Harry Potter si svolge lungo l’arco di 697 pagine. La prima parte del film si ferma su per giù a pagina 444, e ciò significa che per il secondo film si avranno altre due ore e mezza per raccontare duecentocinquanta pagine: se questo equivarrà senza dubbio a una seconda metà più compatta e coerente (grazie anche alla semplificazione delle location, che saranno in gran parte impegnate alla Gringott e a Hogwarts), è impossibile non notare il dislivello scelto e studiato nei minimi particolari in fase di preproduzione.

Insomma, l’ennesima riprova di un adattamento cinematografico che sta scadendo in modo sempre più preoccupante, per colpa un po’ di tutti: produzione, sceneggiatore, regista, attori. Perché non basta far saltare qualche scintilla da una bacchetta di legno per edificare un fantasy degno di questo nome, se poi si è completamente perso per strada qualsiasi istinto alla sub-creazione di un universo “altro”. Ma questo è un assioma che probabilmente registi come Yates non prenderanno mai troppo in considerazione. Purtroppo.

Info
Il trailer di Harry Potter e i doni della morte – Parte 1.
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