L’amore che resta

L’amore che resta

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Con L’amore che resta Gus Van Sant porta al Festival di Cannes 2011, nella sezione Un certain regard, un fermo immagine su due anime solitarie, sulla natura dell’uomo e la sua irrefrenabile ricerca della tenerezza. Con Henry Hopper e Mia Wasikowska.

Viaggio al termine della morte

Nonostante stia affrontando la fase terminale di un cancro, la giovane e bella Annabel Cotton è animata da un profondo amore per la vita e per la natura. Al contrario Enoch Brae, un suo coetaneo, ha smesso di provare a far parte del mondo da quando i suoi genitori sono morti in un incidente stradale. Dal momento in cui si incontrano a un funerale, i due ragazzi scoprono di avere molti punti in comune. Per Enoch, che ha come migliore amico il fantasma di un kamikaze, e per Annabel è l’inizio di una relazione del tutto eccezionale… [sinossi]

Di quando in quando è possibile rintracciare opere cinematografiche in grado di trascinare lo spettatore progressivamente sempre più vicino alle lacrime senza per questo correre mai il rischio di essere considerate ricattatorie, furbe o calcolatrici: si tratta di istanti di cinema sublimi, pressoché privi di sovrastrutture o di costruzioni narrative ed estetiche alla ricerca del mirabolante. Fa parte di questa particolare élite L’amore che resta (Restless, in originale), il film di Gus Van Sant scelto dalla sessantaquattresima edizione del Festival di Cannes per aprire ufficialmente la sezione Un certain regard: reduce dalle pose quasi mainstream di Milk, il cineasta statunitense torna in questa occasione a confrontarsi con la poetica trattenuta e minimale che ha rappresentato il fulcro delle sue opere a partire da Gerry (2002). Nel raccontare la delicata e impossibile (perché ostacolata dalla vita stessa) storia d’amore tra la darwiniana Annabel e il frequentatore di funerali Enoch, Van Sant si affida a uno stile rapsodico, attento ai dettagli eppure allo stesso tempo sorprendentemente semplice: una relazione di pochi mesi, fatta di impulsi improvvisi e razionali digressioni sulla vita e sulla morte; di nomi, razze e tipologie di uccelli; di fantasmi che si vorrebbero scacciare dalla mente e di altri dei quali non si può fare a meno per tirare avanti.

Racchiuso tra le righe dell’ottima sceneggiatura di Jason Lew c’è un intero mondo, costruito attorno a una coppia che non ha più relazione alcuna con ciò che la circonda: tra le maschere mostruose che affollano la notte di Halloween, Annabel ed Enoch sono perfettamente a loro agio, perché la loro stessa esistenza è cristallizzata in un limbo indistinto, nel quale una partita a battaglia navale può rappresentare l’apice di un percorso umano. Pur adagiato sulle forme e le istanze di un’opera di maturazione – con Enoch che deve una volta per tutte fare i conti con la morte dei propri genitori, imparando da un altro decesso imminente le regole base per prendere parte alla congrega dei viventi – L’amore che resta è un piccolo e fragile componimento poetico, che si apre sulle note dei Beatles e si chiude sul dolore della potente voce di Nico in The Fairest of the Season: come tutte le poesie, appare perfino criminoso inquadrarne la forza attraverso una lettura esclusivamente razionale. Ciò equivarrebbe a conti fatti a svilirne l’impatto, riducendo l’intrico di emozioni che Van Sant lascia deflagrare sullo schermo alla semplicistica schematizzazione di una storia d’amore come le altre. Perché L’amore che resta mette in scena qualcosa di più o, per meglio dire, di diverso dalla tipica narrazione di un innamoramento, credibile o meno che esso sia: è il fermo immagine su due anime solinghe e allo stesso tempo sulla natura intrinseca dell’uomo, sulla sua irrefrenabile ricerca della tenerezza e, ancor più, della comprensione sincera.

Nulla di più adatto all’estetica cui ci ha abituato Van Sant, in fin dei conti: anche in Restless la messa in scena è sempre misurata, lontana da qualsiasi tentazione melodrammatica, essenziale ma non secca, dotata anzi di una propria morbida rotondità che non assomiglia a null’altro. Il nitore dello sguardo del regista di Drugstore Cowboy ed Elephant annichilisce con la sua forza anche la resistenza dello spettatore più ostinato: una pulizia della messa in scena che non è mai asettica e mai eccessivamente rigorosa, ma bensì ricca di una vitalità trasportante. Era dai tempi di Harold e Maude che il cinema a stelle e strisce non aveva il coraggio di ragionare sull’elaborazione del lutto e della perdita sprigionando una debordante e sincera passione per la vita. Che è ciò, a ben vedere, che Annabel (insieme al fantasma Hiroshi) insegna al disilluso Enoch: a Gus Van Sant basta l’accenno di un sorriso in primo piano per raccontarlo, trascinandoci a un passo dal baratro. Ma senza paura.

Ps. Straordinaria l’interpretazione naturalista e priva di birignao della coppia di protagonisti, Henry Hopper e Mia Wasikowska; ottimo anche Ryo Kase, visto di recente al Far East di Udine nello spassoso Cannonbal Wedlock.

Info
Il sito ufficiale de L’amore che resta.
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