Et in terra pax

L’esordio al lungometraggio di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Et in terra pax, è un noir metropolitano, un melodramma oscuro e senza spiragli di speranza.

Alla periferia del mondo

L’estrema periferia romana fa da sfondo a tre storie, legate fra di loro dal filo rosso della droga e della criminalità. Marco, dopo cinque anni in carcere, torna a casa sforzandosi di cercare una vita normale. Il tentativo è destinato però al fallimento: si lascia convincere dai suoi ex compari a riprendere a spacciare. Sonia, studentessa universitaria, lavora in una bisca. Il suo tentativo di studiare viene vanificato dalla dura realtà che la circonda. La terza storia riguarda tre ragazzi che si trovano invischiati in una serie di eventi che li porteranno a scontrarsi con la dura realtà della strada. I protagonisti, una volta incontratisi, lasceranno dietro di loro una scia di fuoco, sangue e violenza… [sinossi]
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Non c’è nulla attualmente in Italia che assomigli a Et in terra pax, esordio alla regia dei giovanissimi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, già apprezzati dagli addetti ai lavori per i cortometraggi Chrysalis, Europa e Sisifo: in questa affermazione non si nasconde nessun desiderio recondito di esagerare, estremizzando i punti chiave della lettura critica, ma solo la necessità delimitare una nuova area all’interno della cinematografia nazionale contemporanea. Perché, per l’appunto, non vi è nulla che sia a prima vista apparentabile a questo piccolo e doloroso film: va dunque reso merito a due registi che, pur consapevoli di muovere i primi passi nella settima arte in una nazione che sembra assatanata dalla vitale spinta alla risata a ogni costo, hanno scelto con coraggio di distaccarsi dalla prassi per approcciare stilemi narrativi ed estetici tutt’altro che comuni.
Et in terra pax,  infatti, è un noir metropolitano, melodramma oscuro e senza spiragli di speranza, ambientato in una Roma pressoché invisibile per tutti coloro che sono abituati ai luoghi noti della città eterna: Botrugno e Coluccini ambientano la loro sordida e melanconica commedia umana al Corviale, noto anche come il Serpentone, famigerato mostro dell’edilizia anni Settanta che sognava di rifarsi all’utopia architettonica di Le Corbusier senza essere in realtà in grado di ottemperare ai propri compiti nei confronti dei cittadini. Gli abitanti del Serpentone – un complesso di due edifici lunghi un chilometro per nove piani d’altezza, capaci di ospitare la bellezza di 1200 nuclei familiari – sono stati da subito abbandonati a loro stessi, esattamente come i protagonisti di Et in terra pax: per loro, segnati da esperienze di vita totalmente opposte (un ex-detenuto, una studentessa e tre vitelloni senza arte né parte), il destino è però comune. Un destino che non prevede futuro, ma solo un presente doloroso, in cui anche le scelte operate appaiono come un bieco ingranaggio del sistema: pedine in un gioco più grande di loro, gli uomini e le donne che animano con la loro parlata gergale questa storia di disillusione e sogni infranti – il film è girato interamente in romanesco, dialetto troppo spesso confuso con la deformazione volgare dell’italiano e che invece propone una ricchezza di lemmi e locuzioni non di facile assimilazione per chi non vi è avvezzo: in questo senso i malumori della stampa non romana dopo la proiezione al Lido sono stati fin troppo significativi – si limitano a trovare soluzioni rabberciate a eventi troppo più grandi di loro, sviluppati attraverso il più classico degli effetti domino.

Senza lasciarsi prendere la mano da svolazzi pseudo neorealisti che avrebbero finito per annacquare inevitabilmente la forza della narrazione, i giovani registi – l’intera troupe under 40, a dimostrazione ulteriore del ruolo di mosca bianca del film all’interno del panorama cinematografico nazionale – scelgono una via espressiva che da un lato guarda insistentemente a L’odio di Mathieu Kassovitz, e dall’altra si permette digressioni poetiche che non sarebbero dispiaciute a Pier Paolo Pasolini. L’utilizzo enfatico della colonna sonora, per esempio, messo sotto accusa da buona parte della stampa durante le giornate della Mostra del Cinema, denota in realtà la volontà di uno scarto sensibile dal realismo (spesso più supposto che altro) che si pretenderebbe da opere così legate a un tessuto umano e sociale ben determinato. Pur non riuscendo a evitare in toto le trappole di una narrazione che procede parallelamente alla ricerca ossessiva, però, della quadratura del cerchio, Botrugno e Coluccini profanano il cadavere del cinema italiano “civile” con deflagranti bordate di iperrealismo, come se la tradizione del nostro cinema si mescolasse con macchie eterogenee e salvifiche. In questo senso il finale acquista un valore particolare, firma in calce a un’opera prima coraggiosa, ambiziosa e forse persino sfrontata, ma della quale resteranno i segni, come le cupe vampe che arrossano la notte di una periferia fra tante. Dentro e fuori le nostre metropoli, esattamente come Et in terra pax è dentro e fuori allo stesso tempo dal nostro cinema.

Info
Il trailer di Et in terra pax su Youtube.
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