Falene

Falene, che Andrés Arce Maldonado dirige su sceneggiatura di Andrej Longo, è una sorta di Aspettando Godot che sovverte però il finale beckettiano ma che parla di una vita solo vissuta e mai sognata. Un lavoro fieramente indipendente che segnala la necessità del cinema italiano di guardare negli angoli più nascosti per riscoprire la propria libertà.

Se Parigi avesse lu mere…

Due amici quarantenni s’incontrano, di sera, per strada. Parlano del più e del meno, della vita, parlano di niente in realtà e dalle loro chiacchiere traspare il vuoto di un’esistenza desiderata, sognata, immaginata, ma mai vissuta. Ma non è una sera come le altre questa. Hanno un appuntamento con qualcuno, un appuntamento che dovrebbe finalmente permettere loro di cambiare vita e realizzare il sogno mai celebrato: abbandonare la mediocre realtà che li circonda, nella quale da sempre sono invischiati e dalla quale mai hanno trovato la forza di uscire. [sinossi]

Eppur qualcosa si muove nella palude bitumata nella quale è sprofondato il cinema italiano da almeno venti anni a questa parte. Se il mondo “istituzionale” della produzione non dà segno alcuno di voler invertire la marcia, il sottobosco che un tempo si sarebbe definito “indipendente” (attraverso una semplificazione critica che con il passare degli anni ha finito per confondere le acque) ha deciso di far sentire la propria voce. Fondamentale, in tal senso, il lavoro svolto da Alessandra Sciamanna e Daniele Silipo, già tra i portavoce di quel Cinematografo Poverania che ha divertito e sorpreso le notti visionarie del pubblico capitolino, e ora impegnati in prima persona nel progetto Distribuzione Indipendente, insieme a Giovanni Costantino. L’idea è quella di trovare uno spazio fisso per tutte quelle opere che per una serie di motivi (autoproduzione, annullamento degli schemi, eversione visiva e concettuale) non avrebbero alcuna chance muovendosi nei canali distributivi abituali: e se gli esercenti avvezzi al mainstream nicchiano e voltano le spalle, le sale si possono trovare nel circuito d’essai, svincolandosi una volta per tutte dalla “dittatura” del mercato.

Inevitabile che il battesimo alla lodevole iniziativa sia stato dato da Falene, opera d’esordio al lungometraggio di finzione per il regista colombiano – ma italiano d’adozione – Andrès Arce Maldonado: già selezionato nel palinsesto del Cinematografo Poverania, il film vede al lavoro nelle vesti di produttore Giovanni Costantino. Il fatto che il suo arrivo ufficiale nelle sale italiane sia stato preceduto da due anni di bocciature preventive ai principali festival nostrani e contemporaneo apprezzamento nelle kermesse al di là dei confini non deve ovviamente stupire nessuno: il destino di Falene è lo stesso di molti film italiani, destinati finora all’oblio nella penisola ma oggetti di culto, e spesso anche di studio, all’estero. Nemo propheta in patria, evidentemente. Problemi con la propria patria d’appartenenza li hanno anche i due quarantenni protagonisti del film di Maldonado: vivono il contesto barese come una gabbia, una tomba senza alcuna via d’uscita, e sognano Parigi. Una Parigi da cartolina, ricca di donne, di luci colorate, pulita e perfetta, come ogni luogo ideale che non si conosce se non per interposta persona (le poesie di Jacques Prévert, citate con una meccanica della memoria che ne acuisce il valore e le sublima). Sotto la torre Eiffel i due amici vorrebbero poter fuggire, a bordo del bolide che hanno deciso di rubare con uno stratagemma forse fin troppo scoperto, invitando il proprietario dell’automobile di notte in una zona buia vicino al porto per una contrattazione d’affari.

Falene è (quasi) tutto racchiuso nello spazio vuoto che i due uomini devono riempire prima che il tizio da turlupinare si faccia vivo: uno spazio ricco di dialoghi, riflessioni, battibecchi, sogni e illusioni. Costruito interamente su una pièce teatrale scritta in napoletano da Andrej Longo e ripensata già sul palcoscenico in barese per le interpretazioni di Totò Onnis e Paolo Sassanelli, Falene a tratti sembra un Aspettando Godot in chiave popolare (salvo sovvertire l’ordine beckettiano in un finale deflagrante, in cui l’attesa si compie fino alle estreme conseguenze), in bilico sul crinale che divide il grottesco dalla lettura della realtà. Perché se alcuni dialoghi possono indirizzare il pensiero dalle parti di un surrealismo gentile e melanconico, attitudine ravvivata dalle divertenti digressioni in cui si fa ricorso a ritagli di giornale e animazioni per ridiscutere l’apparato visionario dell’opera, nello sviluppo tragicomico della vicenda c’è tutta l’ansia, dei vitelloni di oggi, dispersi in un meridione che è culla e prigione allo stesso tempo, pronti a lasciarsi stordire e ammaliare dalle luci di passaggio, come le falene del titolo.

Un film di scrittura e recitazione (eccellenti Onnis e Sassanelli, in grado di donare al buffo umanesimo che devono incarnare una dolente risata beffarda che non può non conquistare) di fronte al quale Maldonado non può far altro che mettersi al servizio, relegando le proprie velleità autoriali ad altri momenti. Anzi, è proprio quando cerca di mettere troppo mano alla materia che ha a disposizione, come nell’uso esasperato dello split screen che invade il finale, che Maldonado pecca, smarrendo il senso del film che sta portando a termine. Commedia triste costruita come un noir da camera – ma ambientato all’aperto – Falene può contare inoltre sull’ottima fotografia di Maura Morales Bergmann, sul puntuale contrappunto musicale di Francesco Forni e sul montaggio di Gabriella Cristiani, premio Oscar ventitré anni fa per L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci.

Falene, alla stregua dell’intero catalogo di Distribuzione Indipendente, ricorda come esista un cinema italiano da promuovere e da sostenere: perché, pur senza evitare pecche o scivoloni, si racconta con sincerità, dispensando cibo per l’anima e per il cervello. La speranza è che dai circuiti alternativi nasca la possibilità concreta di dare visibilità al cinema italiano “altro”, senza paure o pregiudizi. Per non trovarci costretti, a nostra volta, a sognare le luci di Parigi.

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    di Nel film di Andrés Arce Maldonado diverse storie di emarginazione e disagio urbano si mescolano, non senza scivolare in qualche caduta di umorismo o in dialoghi dai tratti meno convincenti.