Elegia della fuga – Il cinema di Aki Kaurismäki
Un viaggio nel cinema di Aki Kaurismäki, tra alienati e band stralunate, luci della sera e nuvole in movimento, miracoli e sogni di fughe impossibili nell’est sovietico. Nel tentativo di penetrare la corazza di un autore fondamentale per il cinema europeo dell’ultimo trentennio.
Quando questo excursus saggistico ha visto per la prima volta la luce si era nel dicembre del 2006 e di là a quattro mesi Aki Kaurismäki avrebbe compiuto cinquant’anni: un momento che è considerato, per luogo comune fin troppo abusato, lo spartiacque della vita di ogni uomo. Qui si segna lo scarto definitivo, il punto di non ritorno di un’intera esistenza; è il limite tra l’età dell’insubordinazione e dell’instabilità e quella della saggezza, della pacatezza, della calma. Il 59° Festival di Locarno aveva appena dedicato una monumentale retrospettiva integrale al più celebre tra tutti i cineasti finlandesi, riuscendo con precisione millimetrica a fotografare, congelandolo in un fermo immagine nitido e grandangolare, uno spaccato di carriera ancora in fieri ma nel quale era possibile notare con estrema chiarezza un progredire costante, lineare, a tratti talmente puro da apparire inarrestabile, incontenibile. È passato un lustro, è arrivato un nuovo parto creativo (lo splendido Le Havre, da domani nelle sale italiane), ma il cinema di Kaurismäki, giunto alla bellezza di diciassette lungometraggi, nove cortometraggi, un film concerto e un film per la televisione, ha sviluppato nei suoi trenta anni di vita (fin dall’esordio Saimaa-ilmiö, firmato in co-regia con il fratello maggiore Mika nel 1981) una poetica talmente forte da prendere corpo in scena nonostante un lavoro di sottrazione continuo, film dopo film, anno dopo anno: non sbaglia chi ha colto nella sua penultima fatica Laitakaupungin valot/Le luci della sera un senso profondamente autoriflessivo, perfino entropico.
È vero, è indubbiamente vero che l’intero percorso autoriale dell’uomo di Orimattila sia fondato su un numero elevato di stilemi e segni codificabili, perennemente in circolo, ma questo non significa che il loro utilizzo tenda a mostrarsi abusato, stanco, in via d’usura. Non concordiamo sulla presunta atrofizzazione della macchina cinema di Aki Kaurismäki, riconoscendo al contrario, proprio in queste ultime opere, l’ennesima dimostrazione di un uomo che sta cercando il suo posto in un mondo che non lo capisce; non per ottusità, non per cattiveria, ma semplicemente perché parla un linguaggio diverso. Oggi come trenta anni fa Kaurismäki si mostra alla stregua dei Leningrad Cowboys nell’incipit maiuscolo di Leningrad Cowboys Meet Moses: solo nel deserto, con i vestiti sdruciti, cercando di biascicare qualcosa in una lingua che è un miscuglio impossibile di culture, vite, utopie e riottosità.
Il mondo che si forma all’esterno da sé non lo riguarda, se non incidentalmente, eppure lo preoccupa, lo spaventa. Perché arido, privo di ogni poesia, stabile laddove ci sarebbe bisogno dell’instabilità e dell’indecifrabilità, compatto laddove sarebbe necessario lasciarsi ammaliare dal deforme, dall’improbabile, dal grottesco e in principal modo dal casuale (come la storia d’amore tra Jean-Pierre Léaud e Margi Clarke in I Hired a Contract Killer/Ho affittato un killer, o la diaspora metropolitana dei Franck in Calamari Union).
In questi ultimi anni il cinema di Kaurismäki si è fatto duro e pessimista oltre ogni previsione, e pur continuando a mascherare il pianto dietro surreali nuvole in viaggio o amnesie “bigame” non esita ad abbandonarsi alla disperazione: quando sceglie questa via la percorre affidandosi alla memoria del cinema che fu (Juha, perfetta riproposizione di quello che è forse il vero e proprio totem della cultura finnica, dapprima romanzo di successo di Juhani Aho e quindi opera cinematografica destinata a un detour pressoché infinito, visto che può contare sulle trasposizioni di Mauritz Stiller, Nyrki Tapiovaara, T.J. Särkkä;, Hannu Heikinheimo, prima di quella del 1999 firmata dal nostro) oppure semplicemente chiudendosi a tripla mandata in se stesso, come evidenziato in Le luci della sera. Che è la pellicola sulla quale Kaurismäki spense la sua cinquantesima candelina, ma che non sembra per niente l’opera di uno che ha deciso di abbandonare gli anni dell’insubordinazione e dell’instabilità. Certo, non ha più il piglio sbarazzino che metteva in mostra nella saga dei Leningrad Cowboys (e oltre ai due lungometraggi ci sarà modo di parlare approfonditamente dei corti e di quell’evento che fu il concerto della band più stralunata del pianeta in compagnia del Coro dell’Armata Rossa), ma non ha mai perso per strada il suo spirito sagace, la sua acutezza intellettuale, il suo “anarchismo per masse”.
Anche e soprattutto per questo motivo ci si accinge a (ri)proporre un viaggio nei meandri della sua poetica con la consapevolezza dell’assoluta provvisorietà del tutto. Senz’ombra di dubbio gettarsi in ipotesi divinatorie sul futuro del cinema di Aki Kaurismäki equivarrebbe a una rozza e patetica débâcle, ma siamo allo stesso modo sicuri che ciò che questo omone del freddo scandinavo ci regalerà d’ora in poi sarà semplicemente un tassello a cui trovare una collocazione sul tavolo da gioco, in attesa dell’effetto domino destinato a sconquassare la norma.
Ordine degli articoli

Gli alien(at)i sono tra noi
I protagonisti dei film di Aki Kaurismäki, alla ricerca di un posto in cui (soprav)vivere, sono perdenti e proletari, eroi del nuovo mondo, chiusi come tutti nella prigione della società.
Ma loro, per lo meno, consapevolmente.
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Elegia della fuga
Il tema della fuga acquista fin dagli esordi una centralità assoluta all’interno della poetica di Aki Kaurismäki. Dai Franck alla ricerca dell’eldorado in Calamari Union fino ai Leningrad Cowboys che vanno e tornano dalla terra dei sogni.
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Tra New York e Mosca
Aki Kaurismäki, nel corso della sua filmografia, ha spesso messa in scena, contrapponendoli, il mito americano e quello sovietico, tra ipotesi di fughe verso est e il fascino degli oggetti prodotti nella patria del Capitale.
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Leningrad Cowboys Meet Kaurismäki
Il momento cruciale dell’intera carriera di Aki Kaurismäki con ogni probabilità è rappresentato dall’incontro con i Leningrad Cowboys, autoproclamatisi come la peggiore band del pianeta, persa tra standard statunitensi e cori russi.
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Rock the Tundra
Il rock, nel cinema di Aki Kaurismäki, si muove sottopelle, attraversando l’intera filmografia del regista finlandese e penetrando in profondità, là dove è difficile fermarsi davvero ad ascoltare. Un percorso amoroso e vitale, che acquista un senso culturale forte, e dunque inevitabilmente politico.
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Matti e i suoi fratelli
Aki Kaurismäki non è “solo” un grande autore del cinema europeo contemporaneo; nel corso della sua carriera ha avuto la capacità di costruire attorno a sé una factory o, meglio, una famiglia in grado di seguirlo di set in set, senza abbandonarlo mai.
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Dedicato a…
Il cinema di Aki Kaurismäki, pur così riconoscibile e dotato di un immaginario difficile da confondere con altro, non nasce certo dal nulla. Quali sono i riferimenti culturali – cinematografici, certo, ma non solo – del regista finlandese? E in che modo questa comunione d’amorosi sensi prende corpo sullo schermo?
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Kaurismäki/Jarmusch: come in uno specchio
Tra Orimattila e Akron, nell’Ohio, corre una distanza di quasi settemila chilometri. Una distanza completamente annullata dall’esperienza autoriale di Kaurismäki e di Jim Jarmusch, che sembrano protesi in un infinito dialogo a distanza tra pellicole.
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Per un cinema europeo
Cos’è l’Europa per Aki Kaurismäki? Quale volto e ruolo assume il Vecchio Continente nelle pieghe del cinema del regista finlandese? E in prospettiva quali sono le utopie, se esistono ancora, rintracciabili nel suo sguardo prospettico?
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La fine (?)
In quale direzione si muoverà d’ora in avanti il cinema di Aki Kaurismäki? Quale storie lo interesseranno maggiormente, e perché? Anche l’incontro con uno dei più importanti autori europei degli ultimi decenni volge al termine…
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