Addio mia regina

Addio mia regina

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Addio mia regina si insinua tra le pieghe della corte francese nei giorni della rivoluzione, tra il 14 e il 18 luglio 1789, focalizzando l’attenzione sulla giovane dama di compagnia Sidonie Laborde e su altre figure di secondo piano. Un punto di osservazione che permette a Jacquot di mettere in scena l’atmosfera cristallizzata e praticamente inerme di Versailles, simulacro di un potere ottuso, altezzoso, ciecamente autodistruttivo.

La lettrice

A Versailles, nel luglio del 1789, c’è una crescente agitazione negli ambienti vicini alla corona: nonostante nessuno creda davvero che l’ordine costituito stia per essere spezzato, si fanno piani di fuga in caso di necessità. Tra le dame della regina Maria Antonietta c’è la lettrice Sidonie Laborde, che viene incaricata dalla sovrana di un piano rischioso… [sinossi]
Addio, amica mia carissima.
Che parola orribile, addio.
Ma, ahimè, è necessario.
Mi manca la forza per venire ad abbracciarvi
un’ultima volta. [1]

L’ultimo film del francese Benoît Jacquot ha aperto ufficialmente la sessantaduesima edizione della Berlinale: prima pellicola in concorso, accolta tiepidamente dalla stampa ma non priva di spunti interessanti, Addio mia regina (Les adieux à la reine) si insinua tra le pieghe della corte francese nei giorni della rivoluzione, tra il 14 e il 18 luglio 1789, focalizzando l’attenzione sulla giovane dama di compagnia Sidonie Laborde e su altre figure di secondo piano. Un punto di osservazione che permette a Jacquot di mettere in scena l’atmosfera cristallizzata e praticamente inerme di Versailles, simulacro di un potere ottuso, altezzoso, ciecamente autodistruttivo. Ed è significativo che attorno alle giovani e belle Léa Seydoux (Sidonie), Virginie Ledoyen (Gabrielle de Polignac) e Diane Kruger (Marie Antoinette) si aggirino stanche e appesantite altre dame di corte che da decenni ripetono gesti inutili, ricolmi di ipocrisia e frustrazioni: la reggia è un luogo altro, un limbo in cui si è rinchiusa una nobiltà incancrenita, persino grottesca e caricaturale. La realtà infatti è altrove, a Parigi e nelle campagne e non nella “piccola Venezia” o nelle stanze della regina. Ed è assai riuscita, in questo senso, la sequenza notturna tra il 15 e il 16 luglio, quando Sidonie si trova immersa in un incubo ad occhi aperti, smarrita tra corridoi affollati, dove vagano come anime in pena nobili attempati, terrorizzati dalle voci che circolano sempre più insistentemente e da lunghe liste per la ghigliottina. La mise-en-scène di Jacquot, sostenuta dall’incalzante colonna sonora di Bruno Coulais (Coraline e la porta magica, The Secret of Kells), riesce a evocare, tra ombre ed efficaci fuori fuoco, quella che sarà presto la fine di un’epoca, tra sangue e terrore.

Impreziosito da un cast di sicuro richiamo, Addio mia regina non cerca di rappresentare la magniloquenza di  Versailles, ma si muove tra spazi stretti, spesso spogli: sono le stanze e i luoghi di Sidonie e degli altri gingilli viventi di Marie Antoinette. Donne e uomini che hanno senso solo all’interno della reggia, fantasmi che prendono vita quando leggono o dipingono o cuciono per la regina: Sidonie Laborde è, prima di tutto, la lettrice di Marie Antoinette. E attraverso le identità di cartapesta di Sidonie o di Madame Campan (Noémie Lvovsky), Jacquot tratteggia il fascino e le crudeltà della regina, giovane donna fragile e viziata. Ed è appunto in questo microcosmo che si muove Jacquot, lasciando volutamente fuori campo il popolo e gli avvenimenti storici: l’attacco all’Hôtel des Invalides e la presa della Bastiglia sono solo dei riflessi, delle voci che raggiungono a stento l’incredula nobiltà.

Di Addio mia regina convince soprattutto l’idea di raccontare la forzata e cieca devozione di Sidonie, priva altrimenti di una vera identità, e di concentrasi sui personaggi minori, solitamente in controcampo o fuori fuoco. Funziona meno il sistematico distacco, enfatizzato dalla pur brava Léa Seydoux, che sembra raggelare qualsiasi emozione, persino nel rapporto tra Marie Antoinette e Gabrielle de Polignac, messo in scena con soluzioni eleganti ma troppo di maniera. Il film di  Jacquot, troppo statico e teatrale, avrebbe forse avuto bisogno di performance attoriali meno trattenute, più sanguigne, e di qualche liberatoria imperfezione. Si veda, in questo senso, il primo incontro tra la regina e la sua favorita, con la messa in scena geometricamente ineccepibile, in linea con la dialettica del campo (reali) e controcampo (cortigiani). Ma l’estetica prevale sulla passione.

Note
1. Ultima lettera di Marie Antoinette a Gabrielle de Polignac.
Info
Addio mia regina sul sito della Berlinale.
Il trailer originale di Addio mia regina.
Addio mia regina su facebook.
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