Magic Mike

Magic Mike

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Un mix di dance movie, commedia, dramma e un pizzico di melò: Magic Mike, il nuovo film di Steven Soderbergh, in sala dopo essere stato presentato al Festival di Locarno.

Messi a nudo

Lo spogliarellista Magic Mike prende il giovane e inesperto The Kid sotto la sua ala protettrice, insegnandogli tutti i trucchi del mestiere di stripper, cercando allo stesso tempo di costruirsi una vita al di fuori di quel mondo, con l’aiuto di Paige, la sorella del suo protetto. I due giovani lavorano presso il club Xquisite, di proprietà dell’ex spogliarellista Dallas… [sinossi]

Dal 1989, anno dell’esordio con Sesso, bugie e videotape e della Palma d’Oro a Cannes, Steven Soderbergh ha firmato la regia di ben ventisette titoli, equamente distribuiti in una filmografia schizofrenica che da più di un ventennio viaggia su binari paralleli che evidenziano, oltre che la sua versatilità e spirito di adattamento, soprattutto una duplice anima produttiva e stilistica: da una parte blockbuster piegati alle logiche del mainstream (la trilogia di Ocean, Out of Sight, Traffic, Intrigo a Berlino, The Informant! o Contagion), dall’altra film ultraindipendenti, votati alle esigenze del low budget e di una libertà creativa svincolata dalle imposizioni e dalle ansie da prestazione delle Majors (Bubble, Full Frontal, The Girlfriend Experience). Di tanto in tanto questi binari, per volontà o per contingenze di varia natura, entrano in collisione, permettendo di fatto al regista americano di portare sul grande schermo opere che rivelano al pubblico e agli addetti ai lavori un dna dove è possibile rintracciare i geni di entrambe le modalità. Si tratta di pellicole nelle quali l’aspetto produttivo passa in secondo piano, per lasciare spazio a contenuti e approcci alla materia filmica più personali (le due parti di Che, l’episodio Equilibrium di Eros, L’inglese, Knockout, Erin Brockovich).

Dunque, un film come Magic Mike, presentato in anteprima all’ultima edizione del Festival di Locarno e nelle sale nostrane con Lucky Red a partire dal 21 settembre, entrerebbe di diritto nel secondo filone, viste le caratteristiche e le modalità di lavoro applicate durante la sua realizzazione (pochissime settimane di riprese in digitale e pochi soldi), con un costo effettivo di circa 7 milioni di dollari, anche se gli inaspettati incassi al box office a stelle e strisce hanno fatto registrare numeri (130 milioni di dollari) da vero e proprio blockbuster, regalando a Soderbergh il suo più grande successo commerciale dopo il trittico di Ocean. Ma a giudicare dai suddetti risultati al botteghino, dalla natura drammaturgica che la anima e dalla presenza nel cast di attori di richiamo come Matthew McConaughey e Channing Tatum, nel caso dell’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta americano forse ci si trova al cospetto di una di quelle convergenze di cui si parlava in precedenza.

Lo spunto viene proprio dalla reale esperienza di uno dei due attori principali del film, ossia Tatum, che diciannovenne lavorava come spogliarellista in un locale di Tampa sotto lo pseudonimo di Chan Crawford. Dal reale all’artefatto il passo è dunque breve, anzi brevissimo a giudicare dalla velocità con cui l’interprete e il regista hanno nel giro di una manciata di mesi portato sul grande schermo la storia. Una storia che a conti fatti non si snoda in chi sa quali elucubrazioni drammaturgiche o concatenazioni narrative. Ne viene fuori, infatti, un film che galleggia sulla superficie della sufficienza più per la semplicità e scorrevolezza degli eventi, per l’alternanza dei numeri sul palco con le dinamiche out show, piuttosto che sullo spessore del plot, dei personaggi che lo animano e sull’impianto dialogico. A una scrittura piuttosto schematica  e strutturalmente esile corrisponde dunque un racconto senza grosse pretese, se non quella di intrattenere il pubblico con un mix di dance movie, commedia, dramma e un pizzico di melò. Per questo a conti fatti, Magic Mike è tra le opere appartenenti al filone low budget della filmografia soderberghiana senza alcun dubbio la più leggera e allo stesso tempo la meno autorialmente pretenziosa. E già questo basterebbe a farci vedere con un occhio diverso, decisamente più benevolo, questa serie di pellicole da lui firmate di natura per così dire borderline che inseguono l’alto, il desiderio di sperimentare in libertà sui contenuti, sui corpi e sullo stile, per poi rimanere oggetti audiovisivi che non materializzano sullo schermo niente di tutto questo. Stavolta è il puntare più in basso, il restare con i piedi per terra, evitando gli strati indecifrabili di un Bubble o di un Full Frontal, con il rischio sempre dietro l’angolo di superficialità, didascalismo e retorica, a renderlo più accessibile. I pericoli in molti casi diventano reali e si manifestano, allineandosi però con il desiderio/bisogno degli autori di soddisfare l’immaginario della platea, in particolare di quello femminile (e non solo).

Sul fronte narrativo si limita a raccontare una storiella incentrata sul mondo dello spogliarello, riportando al cinema un'”arte” che ha giocato con i generi e i registri, facendo sorridere (The Full Monty), annoiare (Striptease) e aguzzare la vista (Showgirls). Magic Mike dal canto suo unisce tutti e tre questi aspetti, tuttavia regge l’urto scivolando verso l’epilogo senza intoppi, strappando anche qualche sorriso più del previsto (la scena della ceretta di The Kid), qualche sequenza bollente  e un paio di esibizioni danzerecce di Tatum da non buttare, che lo ri-catapultano ai tempi del primo Step Up. Sul fondo la crisi economica, l’inseguimento di un sogno e l’incapacità di manifestare i propri sentimenti per un uomo che non ha alcuna difficoltà a riempire il letto di donne, ma non riesce a trovare spazio nel suo cuore per una di loro. Stlisticamente, invece, Soderbergh per mettere in scena tutto questo non pigia mai sull’acceleratore, mettendo in quadro una regia insolitamente classica, sobria e piuttosto anonima rispetto a quelle alle quali ci ha abituato fino ad ora.

Info
Il trailer di Magic Mike.
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