Promised Land

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In Promised Land Gus Van Sant torna a raccontare l’America periferica, quella che non conta un granché nello scenario nazionale. Con Matt Damon. Presentato in concorso alla sessantatreesima edizione Berlinale.

Good Steve Butler

Steve Butler è un ragazzo di campagna divenuto un agente di vendita in carriera di una grossa compagnia energetica. La sua vita però prende una piega inaspettata quando viene inviato dall’azienda in una piccola città, McKinley, con la collega Sue Thomason. La città è stata colpita duramente dalla recente crisi economica degli ultimi anni e i due consumati agenti di vendita credono che i cittadini di McKinley accetteranno facilmente  l’offerta della azienda per cui lavorano – decisa a ottenere i diritti di trivellazione sui terreni di loro proprietà – come sollievo alle loro difficoltà economiche. Ma quello che sembrava un lavoro facile e un breve soggiorno diventa ben presto per i due un complicato groviglio, sia da un punto di vista professionale sia sul versante personale… [sinossi]
Non sono un cattivo ragazzo.
Matt Damon/Steve Butler, dal film

Con quindici lungometraggi e quasi trent’anni di carriera sulle spalle, Gus Van Sant rappresenta una delle certezze di quella fetta di cinema a stelle e strisce che viene naturale definire, al di là delle mere contingenze produttive, indipendente. Da quando esordì con Mala Noche (1986), irrequieta storia omoerotica d’amour fou tra un giovane wasp e un immigrato clandestino messicano sullo sfondo freddo e inospitale di Portland, Van Sant ha dimostrato di saper raccontare le infinite contraddizioni degli States senza scendere a patti con una retorica debordante: a dieci anni di distanza, il trittico sui generis composto da Gerry, Elephant e Last Days rappresenta ancora uno dei più terribili colpi allo stomaco inferti dalla cinematografia statunitense contemporanea. Eppure, di quando in quando, il regista nativo di  Louisville, Kentucky, cede al fascino di Hollywood e si concede a logiche più marcatamente industriali: fu così all’epoca di To Die For (1995), Good Will Hunting (1997) e Finding Forrester (2000), ed è così anche in occasione di Promised Land, uscito nei cinquantadue stati sul finire di dicembre e giunto in Europa per prendere parte, in concorso, alla sessantatreesima edizione della Berlinale.

Non è forse un caso che, come in occasione di Good Will Hunting, ad accompagnarlo in questa nuova avventura dietro la macchina da presa sia Matt Damon (al lavoro anche sul già citato Gerry) e che lo stesso risulti anche qui sceneggiatore, esattamente come nel precedente di sedici anni fa. Lì a coadiuvarlo in fase di scrittura c’era Ben Affleck, oggi un altro giovane collega come John Krasinski (noto ai più per la sua parte nel serial The Office ma già apprezzato sul grande schermo, tra gli altri, in Away We Go di Sam Mendes e Smiley Face di Gregg Araki): i due hanno preso spunto da un soggetto del romanziere Dave Eggers. Le similitudini tra Good Will Hunting e Promised Land non si fermano però qui, perché l’evoluzione del personaggio di Damon mostra dei tratti peculiari del carattere che rappresentò il suo primo vero biglietto da visita per l’empireo hollywoodiano. Anche la narrazione, tesa a una ricomposizione del cerchio raggiunta attraverso la piena presa di coscienza di sé del protagonista, sembra assestarsi dalla parti della prassi hollywoodiana, anche se il pubblico statunitense non ha premiato in maniera particolare la scelta, relegando il film nell’anonimato degli incassi.

A pesare sui magri risultati al box office, al di là della qualità media del film, è stata con ogni probabilità la scelta di innervare il plot con una riflessione sulla crisi economica in cui versano gli Stati Uniti, spunto che rappresenta anche il tratto più interessante della pellicola. Promised Land dona una visione del Capitale completamente immerso in una crisi della quale non si riesce a intravedere nessuna via d’uscita: anche per questo i due agenti di vendita Steve e Sue – il primo in forte ascesa all’interno della Global, la compagnia energetica per la quale lavora; la seconda navigata mestierante che ha nel figlio adolescente il suo principale interesse – pensano di avere vita facile quando si trovano a dover convincere gli abitanti di una cittadina rurale a consentire il trivellamento dei propri terreni per qualche migliaio di dollari.
Peccato che l’aspetto più brutale e avido del capitalismo selvaggio, attorno al quale sembrerebbe girare l’intero film, perda gradualmente posto sullo schermo a favore di una esaltazione (già vista e piuttosto pronta a edulcorare qualsiasi chiaroscuro) della vita contadina, dove la comunità viene ancora prima del singolo e le riunioni di vitale importanza per la vita cittadina si svolgono nella palestra del liceo subito prima che entrino in campo le squadre di basket per l’incontro settimanale. Tutto appare poco personale, già fruito e metabolizzato, in Promised Land, e anche la messa in scena di Gus Van Sant mostra un’ispirazione ai minimi storici: l’impressione, netta, è quella di un prodotto a tavolino, studiato in provetta e per il quale l’alchimia tra i personaggi si è limitata al rimescolio dei vari ingredienti. Certo, il cast è in ottima forma, alcune battute al fulmicotone non possono non trascinare al sorriso e il tutto, nella sua confezione perfettamente levigata, lascia di buonumore anche lo spettatore più recalcitrante, ma da Gus Van Sant sarebbe stato lecito attendersi qualcosa di più personale, anche e soprattutto di fronte a un prodotto su commissione. Ma forse sarebbe stato meglio che Matt Damon, come si vociferava, avesse assunto su di sé l’onere della regia, esordendo così dietro la macchina da presa: forse, spinto dall’euforia per l’esordio, avrebbe profuso maggiori energie nella messa in scena di un film quasi totalmente privo di reali contrasti. «Non sono un cattivo ragazzo» ripete più volte durante il film lo stesso Damon. Chissà, forse il problema è tutto lì.

Info
Il sito ufficiale di Promised Land.
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