Intervista a Laurent Cantet

Intervista a Laurent Cantet

Ribellione adolescenziale e lotta di classe al centro di Foxfire – Ragazze cattive il nuovo film di Laurent Cantet colpito dalla censura e presto smontato dalle sale. La nostra intervista all’autore.

Potente, ribelle e disincantato, ma non esente da momenti di autentica tenerezza, è il cinema di Laurent Cantet, autore con la maiuscola e Palma d’Oro a Cannes nel 2008 con La classe. Cantet è da sempre antropologo accurato, cantore di un’umanità marginale (pensiamo anche a Risorse umane, A tempo pieno e Verso il sud) che prosegue la sua indagine con Foxfire (in italiano: Ragazze cattive), adattamento del romanzo omonimo (edito in Italia da Net) di Joyce Carol Oates. Si tratta della storia complessa e affascinante di un gruppo di adolescenti che, nella provincia americana (siamo nello Stato di New York) degli anni ’50, decide di formare una gang al femminile per ribellarsi alle violenze e ai soprusi subiti. Sotto la guida della leader Legs, le fanciulle prenderanno gradualmente coscienza del fatto che la loro lotta, oltre che femminista, è anche e soprattutto di classe.
Ma la complessità, si sa, non si addice più da tempo al nostro “sistema culturale”, ecco allora che il film, distribuito dalla sempre pregevole Teodora il 29 agosto, è prematuramente scomparso nostre sale anche a causa di quel divieto ai minori di 14 anni, che solo l’Italia – a differenza di Francia, Belgio, Argentina e Canada, dove è uscito senza restrizioni – ha imposto alla pellicola.
Abbiamo incontrato il regista per una breve intervista in occasione della sua venuta a Roma per presentare il film.

Cosa l’ha colpita di più quando ha letto il libro di Joyce Carol Oates?

Innanzitutto quando ho iniziato la lettura del libro ho provato sin da subito un forte legame con i personaggi e la voglia di dare un volto a queste ragazze. E poi il romanzo conteneva già molti degli elementi da sempre al centro del mio interesse: la resistenza contro la violenza, il gruppo, come funziona e quali difficoltà si generano al suo interno anche quando questo dà forza ai propri singoli componenti, inoltre mi interessava mostrare la nascita di una coscienza politica collettiva. Sappiamo che queste ragazze si uniscono per problemi che sono pratici e personali, ovvero la violenza che in quanto donne subiscono, chi in maniera maggiore chi minore, questo però le conduce poi gradualmente a sviluppare una coscienza politica più forte. Inoltre la cosa che mi è piaciuta e che costituisce invece una differenza rispetto ai miei film precedenti è l’afflato romanzesco di questa storia, che ho trasposto nel film in maniera il più possibile fedele, perché mi permetteva di affrontare tutte queste grandi questioni politiche ed esistenziali con molta discrezione. In Foxfire non ci sono infatti lezioni di politica, ma si dicono molte cose dal punto di vista politico ed esistenziale, attraverso il racconto di un’avventura rocambolesca piena di quell’energia tipica di un gruppo di adolescenti.

Quali sono state le principali difficoltà incontrate nell’adattamento?

In effetti non è stato un lavoro semplice, innanzi tutto perché il libro e dunque anche il film sono ambientati negli anni ’50 e io sono invece abituato ad affrontare la contemporaneità, quindi ho dovuto fare una notevole ginnastica mentale. E poi il libro è costruito in maniera completamente diversa: è il racconto degli eventi fatto dal personaggio di Maddy, ma la sua è una memoria frammentaria e dunque la storia si va a costruire gradualmente come un puzzle. Ho capito quasi subito che questo espediente, che funzionava benissimo al livello letterario, non sarebbe stato adatto per il grande schermo. Quindi ho scelto una narrazione più lineare, per rendere al meglio illusioni e disillusioni di queste giovani ragazze, e in questa maniera ho pensato che si potesse rendere più agevole l’identificazione con i personaggi e la loro avventura.

Foxfire – anche se in realtà è stato girato in Canada – è ambientato nella provincia americana profonda. Che idea si è fatto preparando il film del punto di vista degli americani sulla lotta armata?

Credo che noi europei abbiamo un’idea distorta della storia americana e questo è a causa di come ci è stata raccontata. Io, preparando il film, ho letto un libro di Howard Zinn, uno storico americano che ha scritto una storia popolare degli Stati Uniti, dove dimostra come la Storia americana sia costruita sulla base di grandi lotte sociali: ci sono stati dei grandi scioperi generali, lotte per i diritti civili e lotte femministe molto forti e poi i Weather Man, questo gruppo di attivisti clandestini degli anni ’70 che si vedono nell’ultimo film di Robert Redford. Ma tutte queste cose sono state rimosse dal cinema americano, che tende a mitizzare la storia del proprio paese. Io ho fatto questo film contro quell’immagine asettica che il cinema statunitense divulga fin dagli anni ’50, con pellicole dove tutti sono così ottimisti e felici. Ho voluto in sostanza, mostrare l’altro volto del sogno americano. Naturalmente il film non vuole dare nessuna lezione di Storia agli americani che potrebbero benissimo lamentare quanto la guerra d’Algeria sia un rimosso del cinema francese e non a caso noi ci abbiamo messo due o tre anni prima di fare un film su quell’argomento. Penso infatti che sia sempre più difficile guardare con spirito critico la propria Storia e per questo credo sia importante andare a girare film altrove. È per questa ragione che sono andato in Canada per Foxfire, a Cuba per l’episodio di 7 giorni all’Havana e ad Haiti per Verso il Sud: ho l’impressione che decentrando lo sguardo si arriva in maniera più precisa a mostrare la realtà esterna.

Il suo film arriva in un periodo in cui si parla molto della violenza contro le donne e in particolare contro donne che appartengono al proletariato. È cambiato qualcosa dagli anni ’50 ad oggi oppure siamo sempre allo stesso punto?

Sfortunatamente è così, credo che il film sia molto attuale ed è anche per questo che il libro mi ha da subito interessato, perché trovavo che Joyce Carol Oates parlando degli anni ’50 abbia voluto descrivere la realtà odierna e il persistere dell’oppressione, ma anche della lotta. È per questo che il mio film, come il libro, è un insieme di pessimismo e ottimismo, proprio come esprime il personaggio dell’ex prete Père Theriault quando dice che ogni rivoluzione è destinata a finire ma anche ad arricchirsi delle conquiste di quella precedente. Infatti la protagonista del film, Legs, vede sì in Père Theriault un suo maestro, ma prosegue oltre i suoi insegnamenti e sviluppa la sua riflessione personale, aggiungendo la questione femminile e altre motivazioni per combattere. Questo arricchirsi delle ragioni per lottare è una delle questioni centrali nel film.

Come ha lavorato sul personaggio chiave di Père Theriault che provoca nelle ragazze questo cambiamento radicale: dalla rivolta adolescenziale alla coscienza e alla lotta di classe? C’era già nel romanzo?

Sì, il personaggio di Père Theriault, questo prete spretato e ideologo marxista, c’era già nel romanzo, io l’ho conservato, ma ne ho fatto qualcosa di diverso: non un personaggio a tutto tondo bensì una sorta di presenza, di “testa parlante” che esprime queste grandi idee che vengono poi assimilate dal personaggio di Legs. Quello che mi interessa dell’adolescenza è proprio il fatto che in quel periodo della vita non c’è ancora la capacità di elaborare e organizzare il proprio pensiero sul mondo circostante e si ha bisogno di questi maestri per poterli superare e, anche solo metaforicamente, uccidere. Ed è per questo che ho affidato a questo personaggio due frasi molto importanti nel film, la prima è la riflessione sul fatto che in America si parla oramai soltanto di felicità e questo obbligo a essere felici è un po’ come l’oppio dei popoli di cui parla Marx. Poi, l’altro concetto importante che esprime Theriault, è che felicità non è nel traguardo ma nel percorso, e questa è una delle frasi più ottimiste del film: la felicità è nel viaggio e dunque bisogna combattere per ottenerla.

Lei è uno degli autori francesi più noti e apprezzati all’estero, può dirci che momento sta vivendo il cinema francese oggi?

Credo che il cinema francese stia vivendo una serie di sconvolgimenti che sono però soprattutto di ordine economico e questo mi preoccupa non poco, perché sempre di più i finanziamenti vanno a concentrarsi su grandi produzioni o commedie che già sulla carta promettono di incassare molto. I film d’autore naturalmente soffrono di questa situazione e sono sempre più difficili da realizzare e ancor più da distribuire in sala. So che in Italia il problema è ancora più sentito, e che ci sono molte sale che stanno chiudendo. Questo accade, sebbene forse di meno, anche in Francia, dove però il problema principale al momento è una concentrazione del mercato su pochi film. Noi abbiamo circa 5000 sale delle quali 4000 vengono occupate da soli cinque film, il resto della produzione deve contendersi le rimanenti 1000, e questo inizia a essere un problema molto serio.

Cosa può dirci dei suoi progetti futuri?

Sto lavorando ad un film che spero di iniziare presto a girare all’Havana, dove ho già lavorato circa due anni fa per il cortometraggio contenuto nel film collettivo 7 giorni all’Havana. In quell’occasione ho incontrato lo scrittore Leonardo Padura e insieme abbiamo iniziato a scrivere una sceneggiatura. Si tratta sempre di un film su un gruppo di persone, questa volta però di ottantenni, che si incontrano e fanno un bilancio della loro vita e della loro generazione.

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