A vida Invisivel

A vida Invisivel

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È notte fonda e Hugo, un impiegato statale, siede sui gradini del Ministero in cui lavora. Non ha il coraggio di tornare a casa e non riesce a togliersi dalla mente le immagini di un misterioso filmino in 8mm che ha ritrovato in casa del defunto Antonio. [sinossi]

Come si può filmare l’invisibile? Una domanda amletica a cui tuttavia rispondono praticamente i registi di genere quando, ad esempio, si pongono il problema di come rappresentare un fantasma sullo schermo. Apparentemente il film A Vida Insivivel del portoghese Vitor Goncalves, con la sua marcata impronta autoriale ha poco a che vedere con il genere, ma si tratta comunque di un accostamento interessante, dato che il protagonista del film racchiude in sé tutte le caratteristiche dell’ectoplasma, nel modo in cui viene raffigurato. Gli ambienti sono pressochè sempre deserti e desolati, e il nostro uomo invisibile si muove in casa perennemente in penombra, mentre al lavoro è l’unico impiegato in un grande edificio di Lisbona (eccetto un altro suo collega vagamente arrivista con cui interloquisce di tanto in tanto). I personaggi entrano ed escono di scena senza una giustificazione temporale, se non quella della voce off del protagonista, che però non aiuta comunque a distinguere passato e presente. Se si chiama in causa il cinema di genere è perché nel film si avverte una mancanza di originalità nel riproporre il tema dell’uomo senza qualità, del personaggio dall’io tormentato tipico del romanzo novecentesco, una mancanza che per essere colmata necessitava forse di un approccio meno letterario e meno autoriale nelle scelte estetiche. Il flusso di coscienza che compone la trama può facilmente far affiorare ricordi letterari di grandi autori come Kafka (in particolare il lavoro non-lavoro cui sembra condannato il protagonista, che tra l’altro è immerso di scartoffie e neanche la traccia di un computer) o Proust (la mediocrità di un uomo che sfugge al presente rincorrendo continuamente i propri ricordi, mediocri anche questi aggiungiamo noi), ma la parola che Goncalves vorrebbe nobilitare ha il suo contraltare sterile in soluzioni visive più che prevedibili, che sono appunto gli ambienti grigi di cui si accennava, illuminati soltanto da luci naturali (suggestiva la fotografia, senza dubbio la cosa migliore del film).

Se le immagini ben presto perdono il loro carattere ipnotico ed evocativo, compresa una Lisbona uggiosa e dai ritmi lenti, anche i dialoghi finiscono inevitabilmente per risultare vuoti, nonostante le questioni esistenziali che il protagonista si pone, e talvolta involontariamente ironici. Ne è un esempio l’ex fidanzata che invita il protagonista per un tè, ma alla prima domanda di lui lo saluta lasciandolo solo, così come gli sguardi vagamente ammiccanti di un’infermiera che annuncia le gravi condizioni dell’amico malato. Momenti che fanno di A vida Invisivel un film in parte criptico, che si fa carico di un mistero che avvolge il protagonista sin dal principio e, nonostante questo, comunque poco interessante. L’oblio che circonda Goncalves, regista che si era fatto un nome girando un solo film negli anni ’80, Uma Rapariga No Verão (fu accostato ad Antonio Reis, nome influente nel cinema portoghese al pari di de Oliveira), è destinato presumibilmente a continuare dopo A vida Invisivel che, presentato in concorso, non sembra abbia le caratteristiche per attecchire né tra gli addetti ai lavori, né tanto meno in un pubblico meno esigente.

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