Intervista a Emanuela Martini
Il TFF ha reso omaggio all’America della New Hollywood. Ne abbiamo parlato con il vice-direttore del festival, Emanuela Martini, spaziando dall’attualità di quel cinema, alle modalità di reperimento delle copie, fino alle problematiche relative al restauro e al digitale.
Un movimento senza manifesto, complesso e variegato, che ha prodotto una serie di film irrorati dalle medesime suggestioni, perché nati in un periodo governato dall’incertezza e da una diffusa paranoia, gravato dalla Guerra Fredda, dalle morti violente di Martin Luther King e JFK, dal conflitto in Vietnam e dal caso Watergate: è la New Hollywood. In una fase in cui l’industria cinematografica americana piangeva il crollo del suo sistema classico, le major puntarono su una nuova leva di autori. Molti provenivano dalle migliori università statunitensi, alcuni avevano fatto la gavetta in TV, altri nella “factory” di Roger Corman. Il loro stile libero e personalissimo rielaborava i codici della Nouvelle Vague francese e omaggiava, sospeso tra nostalgia e rimpianto, il cinema del passato. I generi furono stravolti e rinnovati, il western si fece crepuscolare, i protagonisti divennero dei perdenti, la controcultura si declinava ora in una rappresentazione del sesso e della violenza molto più esplicite e frontali, ora in un nichilismo senza scampo.
A questa Golden Age del cinema statunitense – forse l’ultima – il Torino Film Festival, in occasione della sua 31esima edizione ha dedicato, con 36 titoli, la prima parte di una retrospettiva che si chiuderà il prossimo anno, dal titolo “Suicide is Painless: il nuovo cinema americano tra il 1967 e il 1976”. Con la collaborazione di Luca Andreotti, l’omaggio è stato curato dal vicedirettore del festival, Emanuela Martini, che abbiamo incontrato per parlare nel complesso della selezione (che va da titoli fondamentali come Easy Rider, Bonnie & Clide, The Last Picture Show ad altri meno noti come Electra Glide in Blue, Smile, Inserts), delle difficoltà incontrate nel reperimento delle copie, di restauri digitali e delle dinamiche che regolamentano, in Italia, le scelte di una retrospettiva.
Scorrendo la selezione dei film della New Hollywood proposti in questo primo anno della retrospettiva, si ha l’impressione che si sia voluto allargare sia temporalmente questo periodo, andando a coglierne i primordi, come ad esempio Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country, 1962) di Sam Peckinpah, sia ampliare il numero degli autori coinvolti, che non sono come molti pensano solo Spielberg, Lucas, Milius, Coppola, Scorsese, ovvero quelli che sono stati definiti, nel celebre libro di Michael Pye e Lynda Myles i “movie brats”. È così? Quali sono stati i testi di riferimento?
C’è un libro fondamentale di cui ho tenuto conto per questa datazione ed è “Il nuovo cinema americano (1967-1975)” di Franco La Polla. Anche lui parte da molto prima e, soprattutto nella versione aggiornata, arriva molto dopo. La datazione in questo tipo di cose ovviamente non può essere precisissima, visto che la New Hollywood non è stato un vero e proprio movimento, non c’è stato nessun manifesto. Se le difficoltà di datazione nascono per movimenti come la Nouvelle Vague o il Free Cinema che erano molto più strutturati e avevano anche dei manifesti, pensate come possa essere più difficile farlo per la New Hollywood. Sono fenomeni che sono nell’aria, esplodono, e poi hanno delle frange posteriori. La datazione ufficiale è quella, anche se alcune cose sono cominciate prima, ad esempio nel ’65, ma soprattutto si sono prolungate molto dopo. Anche perché alcuni degli esordienti di quegli anni, come Spielberg e Lucas, diventano i mogul degli anni successivi e lo sono ancora oggi.
Quelli che sono sopravvissuti, altri invece sono stati malamente esiliati dall’industria.
Gli altri un po’ si sono persi, un po’ sono spariti. Un esempio tipico è quello di Bob Rafelson che ha fatto due capolavori in quegli anni, Five Easy Peaces (Cinque pezzi facili, 1970) e The King of Marvin Gardens (Il re dei giardini di Marvin, 1972) [entrambi proiettati già quest’anno, n.d.r.], poi ha fatto un altro paio di film belli e quindi si è perso. Anche Bogdanovich ha fatto più o meno questo percorso.
Pensavamo più a John Milius e a Michael Cimino. Cimino in particolare è riuscito a dirigere solo sette lungometraggi nell’arco della sua carriera.
Eh, ma questa cosa viene da un aspetto del suo carattere, dal suo modo di essere. È stata una sua scelta probabilmente autoriale. Anche Malick ha fatto tre film in trent’anni, ma adesso ne fa due all’anno.
L’impressione è che Hollywood si sia accorta subito di questi talenti, gli abbia dato tanti soldi, per poi scaricarli al primo fallimento.
Beh, questo non lo so, possibile che sia andata così. Comunque, è vero, che Hollywood si è accorta immediatamente del loro talento. È stata estremamente smart, anche se forse non è che ci volesse così tanto spirito di scoperta, visto che Easy Rider (1969) incassò sessanta milioni di dollari in due anni. È chiaro che se succede una cosa del genere bisogna farci i conti. L’intelligenza è stata che, non solo le major hollywoodiane si sono accorte di un fenomeno in divenire, ma hanno anche fatto lavorare tutti questi registi e per diversi anni hanno avuto la possibilità di farlo senza imposizioni. In quella prima fase non c’è stato nessun tentativo di irreggimentarli. Quelli che erano i temi, i volti, gli scrittori, gli sceneggiatori, le storie, sono poi stati ripresi da tanta altra gente, normalissimi registi hollywoodiani che hanno cavalcato il fenomeno e l’hanno cavalcato anche bene tra l’altro. Poi, dopo, è chiaro, siccome alcuni di loro sono diventati i più potenti a Hollywood – Lucas, Spielberg, Coppola, Scorsese – c’è stato un movimento opposto e contrario che ha fatto sì che alcuni di loro si siano ritrovati ad essere emarginati. Però in ogni modo ci sono ancora oggi secondo me le frange più estreme della New Hollywood. I Coen, bene o male, vengono da quell’ambito culturale lì. Mentre Paul Thomas Anderson, che è enormemente più giovane, è l’unico erede vero che abbia avuto Altman. Anche Jonathan Demme viene da lì. Quindi le frange ci sono ancora. Poi però, dopo un po’, Hollywood è ritornata ad essere la solita Hollywood perversa e pervertente. Ma c’è stato a mio avviso anche l’esplodere di un momento culturale estremamente vivo in cui quasi tutti facevano dei grandi film, proprio sulla spinta dello spirito dell’epoca. Poi, chiusosi quel fermento, era quasi ovvio che qualcuno di loro potesse perdere la vena. Bogdanovich è un autore che, volendo, avrebbe potuto continuare sul suo standard ma poi, per una serie di problemi, si è perso.
In che condizioni erano le copie? Ci sono stati dei film che avete scelto di non proiettare a malincuore perché non è stato possibile trovare delle buone copie?
Volevo un film in particolare, Carnal Knowledge (Conoscenza carnale, 1971) di Mike Nichols, ma quest’anno non c’è perché è in fase di restauro. Ci sarà l’anno prossimo, in occasione della seconda parte della retrospettiva. Questo è stato anche uno dei motivi, non l’unico ovviamente, per cui abbiamo deciso di fare questo omaggio in modo non cronologico. Abbiamo approfittato del fatto che c’erano alcune copie di film appena restaurate e abbastanza avanti nell’arco temporale che abbiamo pensato di mettere quest’anno, mentre altre invece, appartenenti a una prima fase della New Hollywood e che non erano fattibili, le faremo l’anno prossimo quando, presumibilmente, saranno state restaurate. L’altra ragione è stata che ovviamente la New Hollywood è un fenomeno multi-tematico, con tante facce e tanti aspetti diversi. Se li vedete cronologicamente vi accorgete che sono proprio dei blocchi, che via via scompaiono, cioè ad esempio nella prima fase ci sono tanti road-movie. Mentre, intorno alla metà degli anni ’70, ai tempi del Watergate, è il momento dei film della paranoia. Quindi, tenendo conto della difficoltà di avere subito delle copie restaurate, abbiamo pensato che, facendola non cronologica, potevamo offrire anche una selezione più varia. Nel 2014 ci saranno ancora dei film dell’inizio e dei film molto successivi. Ritornando invece alle copie: arrivano da archivi vari. Quelli che abbiamo trovato, li abbiamo presi restaurati. Molti restauri cominciano ad essere non più in 35mm, ma in DCP, come ad esempio, pensando anche all’Italia, il restauro di 8 ½ [presentato proprio in questa edizione del festival, n.d.r.]. Tenete conto del fatto che gli anni ’70 stanno cominciando a restaurarli adesso. Fino a pochi anni fa ad esempio trovare certi film di Peckinpah era molto difficile.
I restauri presentati quest’anno sono stati fatti dalle major e lo stesso accadrà per l’anno prossimo. Saranno di più i film restaurati, visto che li stanno facendo proprio in questi mesi?
Speriamo di sì. Noi naturalmente come festival di Torino non ci possiamo permettere di pagare i restauri.
Le cineteche invece non stanno facendo nulla? Magari le cineteche americane?
Le cineteche hanno fatto delle cose, per esempio mi ricordo che Pat Garrett & Billy the Kid (1973) a suo tempo fu restaurato da una cineteca americana ed è questo il motivo per cui è ancora un 35mm. Scorsese anche sta facendo delle cose importantissime, anche se lui lavora di più sul cinema classico. E comunque anche le cineteche hanno i loro problemi di fondi.
Le major però fanno solamente restauri in digitale? E quindi le proiezioni sono necessariamente in DCP, invece che in pellicola?
Sì, è così.
Vedendo la questione in maniera più ampia, dall’anno prossimo si passa definitivamente al digitale…
Sì, e chiuderanno un sacco di sale. Quelle che non hanno i soldi per fare la conversione chiuderanno.
Che succederà qui nelle sale di Torino, in particolare quelle in cui si svolge il festival?
A Torino probabilmente si convertono quasi tutte, come a Milano suppongo, anche se non ne sono sicura. Però chiuderanno un mucchio di sale. E quello è un problema serio, ma è un problema ancora più a monte. Lo Stato italiano credo che non abbia mai fatto nulla per aiutare le sale.
E quindi che succederà qui al festival? Saremo costretti a vedere tutti i film in digitale?
No, no, io credo che tutte le sale qui a Torino, le sale più importanti, che hanno la possibilità sia della proiezione in digitale che in pellicola, conservino il proiettore. Il cinema Massimo, ad esempio, ha già e avrà ancora le sale attrezzate per tutto. Anche al Reposi in diverse sale sono già attrezzati per entrambi i formati, non è che buttano via il proiettore…
Tra i film che abbiamo rivisto in questi giorni, ci è capitata qualche copia in non buone condizioni. Ad esempio, il 35mm di California Split (California Poker, 1974) di Robert Altman è quasi completamente rosso..
Purtroppo qui la colpa è dell’archivio che ci ha fornito la copia – non vi dico qual è – e non ci ha detto che era andata in magenta, o magari non l’ha controllata, per cui noi ce ne siamo accorti solo il giorno prima. Se ce l’avessero detto, non avremmo fatto quei film, ne avremmo fatti degli altri. Perché, essendo la retrospettiva su due anni, si poteva tranquillamente giocare sui titoli, spostandone magari qualcuno all’anno successivo in attesa di trovare una copia migliore. Visto che ce ne siamo accorti uno o due giorni prima, non potevamo fare più niente e a quel punto si proiettano lo stesso, evidentemente. Tra l’altro, visto che avevamo Elliot Gould come ospite, lui voleva andare a rivedersi California Split e io l’ho avvertito, scusandomi, che la copia era color magenta. Ma mi ha risposto che non gliene fregava niente, che il difetto del colore lo lasciava assolutamente indifferente. E pensare che la copia che avevamo mandato due anni fa per la retrospettiva su Altman era perfetta. Comunque, secondo me, ha ragione Gould quando dice che su un film come California Split se la copia è un po’ rossa non è gravissimo. Al contrario se – sempre restando ad Altman – becchi una copia magenta di McCabe & Mrs. Miller (I compari, 1971) non vedi più niente perché il film è tutto giocato sui bruni, sui marroni, sul verde scuro.
A proposito di questo color magenta, è un problema che si verificò anche, ormai diversi anni fa, in occasione della retrospettiva su Chabrol.
Questa cosa succede per tutta una serie di pellicole a colori. Tra l’altro prima ho nominato Scorsese. Lui ha fatto dei restauri straordinari di film delle major anni ’50, film che avevano questo problema del color magenta in modo ancor più evidente. All’epoca si usava prima il Technicolor e poi l’Eastmancolor, che è peggio del Technicolor come tenuta del colore. Si rischia veramente quando si punta a quei film…Comunque quando qui mi hanno detto che ad esempio The Wild Angels (I selvaggi, 1966) di Corman era una copia color magenta, ho pensato subito al fatto che quelle erano produzioni di serie B e che quelle produzioni usavano pellicola scadente, può capitare…È questo uno di quei grandi problemi che col digitale si dovrebbe superare. Ma, per fare un altro esempio, per decenni, è andata in giro per i festival Carmen Jones (1954) di Otto Preminger ed era una copia completamente rossa. Gli anni ’50 in particolare sono stati martoriati da questo problema. Qui però devo dire che è veramente incidentale perché altrimenti avrei cambiato i titoli. Di Altman ho fatto un solo film perché abbiamo fatto la retrospettiva completa due anni fa, dovevo sceglierne ovviamente uno con Elliot Gould, visto che era ospite qui, e magari avrei preso M*A*S*H (1970). Solo che, con le copie arrivate così all’ultimo momento, non potevamo farci più niente.
Nella New Hollywood tra l’altro il direttore della fotografia è un vero e proprio autore. Non a caso, avete deciso di mettere in selezione quest’anno un film da regista di Haskell Wexler, Medium Cool (America, America, dove vai?, 1969) che apre proprio a questo discorso. L’unicità della New Hollywood va letta anche in tal senso, un periodo in cui la fotografia è stata al centro del discorso artistico. Oggi invece magari non è più così perché, con il digitale, molte cose si possono fare in post-produzione.
Certo, loro hanno avuto questi direttori della fotografia pazzeschi arrivati dall’Ungheria come László Kovács e Vilmos Zsigmond. E avevano anche dei montatori pazzeschi. Ad esempio, c’era Lou Lombardo che è stato il montatore di The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1969) di Peckinpah. In quel periodo, regista e montatore, regista e direttore della fotografia, lavoravano secondo un profondissimo spirito di collaborazione. Era una collaborazione artistica molto forte, poi è chiaro che oggi un po’ di direttori della fotografia si sentono sminuiti rispetto ad allora, però secondo me possono fare comunque delle cose interessanti, ci si deve adattare. Per fare un esempio, Yu Likwai, il cui cinema da regista è stato omaggiato nella sezione Onde, è un grandissimo direttore della fotografia, collaboratore abituale di Jia Zhangke, e lui lavora con il digitale.
Certo, infatti, spesso ognuno ha una storia completamente sua. Con Yu Likwai abbiamo parlato proprio dei motivi per cui preferisce il digitale alla pellicola e lui ci ha detto che molto nasce anche dalla necessità di sentirsi più liberi rispetto alla censura, visto che con la pellicola dovevi passare attraverso una serie di processi, come la fase della stampa, che era comunque sotto controllo governativo. Invece con il digitale hai l’immagine già pronta. Tornando a Zsigmond e a Cimino, hai visto per caso il restauro digitale de Heaven’s Gate (I cancelli del cielo, 1980) presentato nel 2012 a Venezia? Perché a noi non ha convinto, in quanto toglie tutta la grana, la polvere che era stata impressa.
No, purtroppo questo restauro non l’ho visto. È chiaro comunque che perdi aura col digitale, ma credo che ci dovremmo rassegnare. Io sono favorevole ai cambiamenti ma rimarrò sempre legata alla pellicola, però vi devo confessare che se ho bisogno ogni tanto vedo ancora i film in VHS. Per me l’aura è una cosa molto più complessa che va oltre la percezione di certe imperfezioni, ed è anche una questione di dimensioni dello schermo. In questi giorni sono riuscita a vedere in sala solo Scarecrow (Lo spaventapasseri, 1974) e devo dire che era una proiezione magnifica.
Come mai alcuni del film della retrospettiva avevano su pellicola i sottotitoli in spagnolo?
Perché arrivano dalla cineteca di Madrid. Bisogna andarseli un po’ a trovare i film, in giro per il mondo. A volte si trovano le cose più bizzarre e rare nelle cineteche più impensabili. Ad esempio quella di Helsinki aveva i film inglesi degli Ealing Studios ma anche molto Monte Hellman che poi utilizzai per la retrospettiva che feci al Bergamo Film Meeting.
Come ti sei divisa il lavoro con Luca Andreotti che ha collaborato a questa retrospettiva sulla New Hollywood?
Io mi occupo della parte artistica e Luca Andreotti di quella tecnica. Ho preparato una lista, che inizialmente era di 140 titoli, poi li ho suddivisi per anno e mescolati perché ci sono dei film che non puoi non fare, ma volevo inserire anche delle cose poco note come Smile (Michael Ritchie, 1975) o Inserts (Il pornografo, John Byrum, 1974). Lui fa la ricerca e poi, se un titolo non si trova, aggiusto il tiro. Così ci siamo accorti che Conoscenza carnale non si trovava. Inoltre, qui a Torino la biblioteca Gromo e l’Arci organizzano, a partire da ottobre, una sorta di avvicinamento progressivo al Festival di Torino con una serie di proiezioni e avevano inserito The Shooting (La sparatoria, 1966) di Hellman, allora non ho voluto toglierglielo e ho scelto di inserire Two-Lane Blacktop (Strada a doppia corsia, 1971).
È il tuo settimo anno qui al Festival di Torino. Le retrospettive che hai curato sono soprattutto rivolte al cinema americano o, più in generale, anglosassone. Come mai questa scelta?
Beh, non sempre. Ad esempio mi sono battuta per fare Melville, perché sapevo che non era mai stato fatto. Poi ho fatto anche Oshima.
Ma potrebbe essere un problema anche di reperibilità di copie? Per esempio, è più facile fare retrospettive sul cinema americano, perché ci sono le major che hanno i mezzi per restaurare, mentre invece, ad esempio, per il nostro cinema è più difficile perché, a parte i soliti titoli noti, è difficile trovare delle copie buone?
Mah, non necessariamente. Comunque lo ammetto, a me piace il cinema americano e sono specializzata in questo settore. Se si parla di una retrospettiva grande, gli italiani non li puoi fare perché sono molto visti, da Bertolucci, a Bellocchio, a Ferreri, di cui è stata fatta una retrospettiva qui due anni fa, al Museo del Cinema. Ci sono le cineteche che ci lavorano, c’è quella di Bologna che lavora proprio sul cinema italiano. Bellocchio lo hanno fatto a Locarno abbastanza di recente e poi l’ha fatto Pesaro. Per cui i grandi autori non li posso fare, i piccoli però sì, e cerco di infilarli nella programmazione. Quest’anno mi avevano proposto di fare una retrospettiva su Armando Crispino, ma purtroppo non avevo lo spazio in programmazione, anche se ha fatto solo otto film, così ho scelto di fare almeno L’etrusco uccide ancora (1972). Credo che qui al festival si debbano fare o delle retrospettive su grandi autori o su movimenti molto importanti, come ad esempio quest’anno la New Hollywood. Guardando altrove, per esempio alla Francia, c’è Truffaut che è battutissimo. Ma credo che la retrospettiva che tutti sognano di fare è su Godard, che però ha una produzione sterminata, bisogna distribuirla almeno su due anni e poi non conviene farla cronologica, perché per il pubblico la prima parte della sua carriera andrebbe benissimo, poi la seconda proprio no, può funzionare solo in piccoli spazi, infine c’è questa ultima parte della sua produzione che io trovo eccezionale. Tre anni fa è venuto qui al festival Michael Palin e allora ho pensato di fare una retrospettiva sui Monty Python, ma Barbera mi ha detto che non si poteva fare perché l’avevo già fatta a Bergamo. È vero, ma sono passati vent’anni! C’è questa idea che se una retrospettiva è già stata fatta non la puoi riproporre.
Per la seconda parte della retrospettiva ci saranno più titoli?
Sì, saranno qualcuno in più, una quarantina, mentre quest’anno erano 36. Comunque quest’anno ci sono anche cose che mancano per scelta. Ad esempio qui non c’è Duel (1971), che in realtà si trovava, però da una parte c’erano già molti road movie, mentre dall’altra il prossimo anno voglio fare un doppio programma, ovvero proiettare insieme Duel e Jaws (Lo squalo, 1975) per far vedere come siano lo stesso film fatto con mezzi diversi: il primo realizzato con due lire e un camion, mentre l’altro con tanti soldi e una creatura enorme. Ho una passione per Spielberg e penso che il suo capolavoro sia Lo squalo, che forse se la batte con Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Molti film citati nel libro di La Polla sono poi quasi scomparsi, tipo L’uomo che amò “Gatta Danzante” (The Man Who Loved Cat Dancing, 1973), come mai?
Avrei anche potuto metterlo, ma ho preferito mettere di Sarafian Vanishing Point (Punto zero, 1971). L’uomo che amò “Gatta Danzante” è in effetti un western e quest’anno ce ne sono pochi. Ma il prossimo anno saranno di più, ad esempio inserirò Tell Them Willie Boy Is Here (Ucciderò Willie Kid, 1969) di Abraham Polonsky, il primo film che Polonsky realizzò dopo la terribile esperienza del maccartismo. Gatta danzante non credo che lo farò perché rispetto a Corvo rosso o Willie Kid è un film meno bello. Metterò poi un Romero, un Carpenter, perché credo che debbano esserci, anche se qui a Torino sono state già fatte le retrospettive su questi autori. Credo che La notte dei morti viventi abbia cambiato il volto dell’horror, quindi per Romero il film sarà quello, mentre per Carpenter ancora non ho deciso.
La New Hollywood nasce e si sviluppa all’interno di una congiuntura storica irripetibile, ma oggi ci sono autori che si ispirano a quel cinema come Paul Thomas Anderson, ma anche J.J. Abrams. Qual è l’eredità oggi?
Perlopiù l’eredità della New Hollywood è scorsesiana e lo si vede a partire dalla metà degli anni ’90, col ritorno del noir e il nuovo gangster movie, lo si vede dal tipo di storie ma anche dello stile. Quella è l’eredità più immediata della New Hollywood e io mi sono sempre detta peccato, perché secondo me Robert Altman è stato il maggiore innovatore. Il prossimo anno mostrerò due film dei suoi eredi che sono stati per lui aiuto-registi, sceneggiatori e collaboratori, Robert Benton e Alan Rudolph, che hanno fatto un paio di bei film e poi si sono persi. Poi, dopo circa vent’anni, è venuta alla luce l’eredità di Altman con Paul Thomas Anderson, che si è proclamato suo erede, l’ha ammesso lui stesso. James Gray, anche, viene da Scorsese. Altri più o meno eredi della New Hollyowood sono, oltre ai Coen, Jonathan Demme e Alexander Payne. Demme ha iniziato facendo della serie B per Corman come Femmine in Gabbia e Crazy Mama. Poi, un’altra filiazione cormaniana è Carpenter, ma anche John Sayles, cioè il “puro” in assoluto, che ha scritto la sceneggiatura di Piranha (1978) per Joe Dante. Poi negli anni ’80 c’è stato invece il movimento sulla costa est, a New York, con Jarmusch, la sua compagna Sara Driver, Amos Poe, Susan Seidelman, loro fecero un movimento, il Nuovo cinema americano degli anni ’80 e facevano proprio gruppo su New York realizzando film antihollywoodiani, cosa che i loro colleghi della costa ovest non hanno mai fatto, a loro interessava solo fare cinema. Questi due movimenti non si sono mai collegati.
Un’ultima riflessione te la vogliamo chiedere su Francis Ford Coppola, di cui quest’anno hai scelto di fare The Rain People (Non torno a casa stasera, 1969), un film che ci ricorda che il suo cinema è forse, in assoluto, quello meno classificabile. Forse quello che manca, a proposito di eredità, è la sua sfida al sistema hollywoodiano. Nessuno che è arrivato dopo di lui l’ha imitato nel suo spirito prometeico.
Tematicamente e come atmosfere molti si sono ispirati a lui, la sfida all’industria invece è diverso. Figure così gigantesche come quelle emerse in quegli anni non ne vedo, anche se mi piace moltissimo Paul Thomas Anderson e, per citarne un altro, mi piace molto anche Wes Anderson. Mi sembra che comunque ognuno faccia il suo lavoro, autonomamente. Quello era invece un movimento, perché stava cambiando la cultura e non solo in America, stava cambiando dappertutto. In tutto il mondo si sono identificati con quei film, perché coglievano lo spirito dei tempi. Era un momento incredibile anche per uno spettatore, andavi al cinema e trovavi cose pazzesche, trovavi Harold e Maude (1971). C’era una corrispondenza culturale nel mondo occidentale molto forte e adesso non so se ci sia ancora. Coppola poi sta tornando a fare le cose che faceva prima, dal gioco su bianco e nero e colore, alla distorsione visiva. Sta continuando a sperimentare ed è sempre molto interessante. L’anno prossimo comunque non posso non fare La conversazione (1974).
Vedendo Little Murders (Piccoli omicidi, 1971) si nota come ci sia un altro tipo di eredità ancora molto viva, quella del rispecchiamento che possiamo trovare nei protagonisti di questi film. I personaggi del cinema della New Hollywood erano così nichilisti, proprio come noi, ma fa anche un po’ rabbia vedere che comunque la società lasciava a loro dello spazio, mentre questo da noi non succede.
È vero, c’è molta corrispondenza nell’immaginario perché quello della New Hollywood è un cinema di losers. Pensiamo a I cinque pezzi facili o a Lo spaventapasseri che poi è un film steinbeckiano. C’era il cinema della paranoia con The Parallax View (Perché un assassinio, 1974), La conversazione, Bersaglio di notte e il prossimo anno farò Klute (Una squillo per l’ispettore Klute, 1971) che adesso è in fase di restauro. Quello era un mondo che faceva paura e quel cinema l’ha raccontato benissimo, ma è un mondo simile a quello di oggi, in cui di nuovo siamo tutti terrorizzati, soprattutto i ragazzi! Per cui credo che ci sia potenzialmente un grande rispecchiamento tra i giovani d’oggi e quei personaggi lì. Allora forse sarebbe da pensare, parto, vado a fare l’operaio nell’oleodotto chissà dove. In quel cinema l’anti-mito è diventato mito. Non so se accadrà anche per il cinema di oggi, mi sembra che non ci sia la stessa energia per raccontare storie come quelle. E poi bisogna dire che la mia generazione e quella successiva si sono rispecchiate nel cinema della New Hollywood, non in quello italiano. Da noi forse l’unico era I pugni in tasca, poi c’era il cinema politico che io amo, ma che non ti rappresentava. Il tuo modo di sentire, le tue insoddisfazioni, la rabbia, la perdita dell’identità e dei valori era in quel cinema americano. In Italia comunque io non vedo niente che assomigli a questo e che possa rappresentare dei sentimenti analoghi attualmente. In America qualcosa c’è, ma il problema è che da noi il vero cinema americano non arriva più. Per esempio il movimento Mumblecore ce lo siamo perso completamente, un cinema che avrebbe potuto avere degli echi anche nel nostro pubblico giovane. È un cinema che andava forte 4-5 anni fa, in cui c’è un senso di dispersione e di inadeguatezza. Da noi non c’è questa roba.