Documentaristi siciliani
Intervista a Edoardo Morabito, vincitore con I fantasmi di San Berillo di Italiana.doc al Festival di Torino. Con lui abbiamo parlato della nascita di Documentaristi siciliani, un network di autori del cinema documentario in Sicilia.
La Sicilia è probabilmente la terra d’elezione del cinema documentario in Italia, sia per una questione meramente istituzionale – dal 2008 Palermo è la sede del dipartimento del cinema documentario del Centro Sperimentale di Cinematografia -, sia per aver dato i natali al nostro maggior autore di cinema del reale, quel Vittorio De Seta che nell’isola ha ambientato molti dei suoi lavori più celebri, a partire da Lu tempu di li pisci spata (1954). È perciò con enorme favore che assistiamo alla nascita di Documentaristi siciliani, un network – con lo scopo di diventare associazione – in cui si uniscono le forze di chi lavora al cinema documentario nel territorio. Il progetto nasce prendendo ad esempio altre realtà regionali, come l’Associazione Piemontese Produttori Documentari (Aprodoc) e I Documentaristi Emilia Romagna (DER). Incuriositi dall’iniziativa, abbiamo intervistato Edoardo Morabito, tra i fondatori del network e autore di I fantasmi di San Berillo, film vincitore della sezione Italiana.doc alla scorsa edizione del Torino Film Festival; un documentario che racconta, in modo eccentrico e personale, la scomparsa e la demolizione di buona parte di un quartiere catanese (il quartiere di San Berillo, per l’appunto) e insieme la sopravvivenza di alcune figure marginali, come trans e prostitute.
È stata perciò l’occasione per parlare con Morabito del percorso che il suo film sta facendo dopo la vittoria a Torino e per chiedergli un’opinione su quanto sta avvenendo nel mondo del cinema documentario, soprattutto dopo il Leone d’Oro vinto da Francesco Rosi con Sacro GRA. Un’intervista che, iniziata come telefonica, è poi proseguita con uno scambio di mail, visto che – forse per una sorta di maledizione dell’Italia dis-unita – il collegamento Roma-Catania non era dei migliori.
Dopo il Festival di Torino, dove è stato proiettato I fantasmi di San Berillo?
Il dieci dicembre è stato proiettato a Palermo, grande risposta: 400 persone ed ero già contento. Poi l’anteprima a Catania l’abbiamo fatta pochi giorni fa, l’otto gennaio, al cinema King, l’unico cinema nel quartiere di San Berillo nonché unica sala d’essai a Catania, e il risultato è stato sorprendente. Sapevamo di giocare in casa ma la risposta della gente ci ha letteralmente travolti. È stato un delirio. La gente che spingeva per entrare, alcuni a momenti venivano alle mani, qualcuno ha minacciato pure di chiamare i pompieri. Il pubblico era seduto per terra, oppure era in piedi, sembravamo negli anni ’50. Abbiamo dovuto organizzare una seconda proiezione alle 23, di nuovo completamente esaurita. È stato esaltante. Ora il cinema lo ha messo in programma per una settimana almeno. Ma la cosa più emozionante è stata avere con noi tutti i personaggi del film. Mentre guardavano il film ridevano come matti, si commuovevano. Insomma i critici che temevamo di più si sono dimostrati il pubblico ideale. Alla fine, timidamente, si sono presi il loro applauso.
Prossime proiezioni invece?
A fine gennaio portiamo il film a Genova, poi a Bologna e a febbraio lo presenteremo finalmente a Roma. Stiamo cercando di capire se è possibile avere una piccola distribuzione. Dalla TV finora non è arrivato nessun segnale buono. La Rai non lo vuole comprare o almeno ci hanno detto di parlare con un’altra persona. Comunque non sembrano interessati, mi pare di capire. Insomma, non è che dopo Torino ci siano stati poi tanti sviluppi, anzi…direi che per ora ci stiamo leccando le ferite della produzione di questo film. In Italia sembra che se vinci un premio importante poi fallisci economicamente. E potrei fare esempi molto più importanti di me. Comunque siamo fiduciosi. Non so bene in che cosa, ma lo siamo.
Quindi pensi che non sia cambiato niente ora che il Leone d’Oro è stato assegnato per la prima volta a un documentario?
Ma guarda, tutti speriamo di si, indubbiamente è un buon segno e ha portato molta gente a vedere per la prima volta un documentario al cinema. Io questo evento lo leggo in due modi diversi: da un lato c’è sicuramente un ritardo storico con cui l’Italia deve fare i conti, nei confronti del cinema documentario, visto che in molti altri paesi è già sdoganato da tempo. Ma credo anche che stia emergendo un bisogno di tipo più pratico: una necessità culturale per questo paese che tarda sempre a conoscersi, e che forse è il paese con più scheletri nell’armadio d’Europa. Dunque il documentario come bisogno di imparare a guardarsi e conoscersi, ma anche per la maggiore fattibilità che un film documentario ha rispetto a un film di finzione, in termini di risorse e autonomia dall’industria. Questo Leone d’Oro sembra dire agli italiani: cominciatevi ad abituare a vedere i documentari, perché vi daremo prevalentemente questi, d’ora in poi. Per gli altri film non ci sono più i soldi, né gli autori, né le storie.
Nel frattempo stai già pensando a un nuovo film?
Sì, ci sto pensando. In realtà non faccio altro che pensarci, da anni. Se te la devo dire tutta ho due progetti per documentari per il cinema, una serie di documentari per la tv, due per film di finzione, uno per un film-TV, uno spettacolo teatrale e tre cortometraggi. Al momento sto solo tentando di capire su quale di questi progetti investire energie e cercare i soldi che non troverò, per poi comunque realizzarlo in quattro anni e nelle pause tra un lavoro di montaggio e l’altro. Perché io sono un montatore, professionalmente parlando. Il regista vorrei continuare a farlo con l’innocenza di un eterno esordiente.
Sarà sempre ambientato a Catania?
No, no, Catania del resto non esiste. Oggi parlare in termini di località geografiche non ha più molto senso. Anche per questo il film abbiamo cercato di farlo meno catanese possibile, cercando di non parlare solo ai catanesi, anche se il soggetto è un quartiere di questa città, d’accordo, ma il tentativo è sempre quello di raccontare – attraverso naturalmente lo specifico di una storia specifica, cosa direi inevitabile – qualcosa di più grande dell’evento stesso.
Cosa intendi con qualcosa di più grande? Ti riferisci alla storia dell’urbanistica, visto che il processo di sventramento dei quartieri popolari è un qualcosa che è accaduto anche in altre città, non solo a Catania?
Sì, ho provato a sottrarre il racconto alle sua particolarità, cercando di ricollegarmi a un processo che è avvenuto anche a Parigi, Roma, Londra, anche se lì accadeva alla fine dell’Ottocento o agli inizi del Novecento. Parliamo ovviamente del modello dei boulevard di Haussmann, creati per garantire il controllo della popolazione da parte del potere. A Catania è accaduto molto più tardi, negli anni ‘60 e questo è davvero incredibile, anche perché si tratta di una delle rappresentazioni più eclatanti della sopraffazione speculativa del potere democristiano che, in combutta con l’immobiliare vaticana, ha devastato l’Italia trasformandola dalla patria del rinascimento e della bellezza, nella patria dell’orrore edilizio. La storia dell’urbanistica è la storia del potere, se ci pensi. Di assolutamente catanese invece nel film resta una certa umanità sicula orientale, etnea, di questa popolazione post-ellenica e pre/pro-berlusconiana, mercuriale, abituata a scappare dalla morte in continuazione e fatta di arroganza e affetto gratuito, arrivismo ed empatia, di una spietata lucidità nei confronti del sentimento umano e della maggiore perversione sessuale della penisola. Ma questo è un carattere dei personaggi, non può diventare la struttura drammaturgica di un film.
In un contesto così desolante dal punto di vista culturale, urbanistico e organizzativo – che ancora una volta riporta alla luce l’idea di Sciascia della “Sicilia come metafora” – nasce un’iniziativa importante come quella dei Documentaristi siciliani. Come si articola questa proposta?
La proposta è nata durante gli IDS, Italian Doc Screenings, che si sono fatti per la prima volta a Palermo lo scorso ottobre e abbiamo deciso di nascere come network, sull’esempio del Piemonte e dell’Emilia Romagna. Ci proponiamo fondamentalmente di interagire con la nostra Film Commission, ma non solo. Per esempio stiamo creando delle piattaforme per raccogliere e promuovere i film siciliani, sia da un punto di vista commerciale, sia didattico, nelle scuole. Abbiamo pensato che se, oggi, un pubblico in Italia i documentaristi non ce l’hanno, potrebbero avercelo tra 10 anni, dunque un’idea potrebbe essere quella di lavorare sul pubblico più giovane, quello degli adolescenti. Del resto è scandaloso che in Italia ancora l’educazione all’immagine non sia messa a sistema. Così come da sempre si insegna a leggere i testi scritti, oggi si dovrebbe insegnare a leggere le immagini, visto che la comunicazione, e direi il pensiero, oramai si forma su queste. È fondamentale per la formazione del pensiero critico di un individuo riuscire a leggere i contenuti di un’immagine, sapersi difendere da esse e saperne creare di nuove. Personalmente dunque non credo a un uso esclusivamente didattico nel senso nozionistico, ovvero: guardo un documentario su un argomento perché desidero conoscere questo dato argomento, quanto di educazione, di alfabetizzazione alle immagini. O ancora stiamo cercando di fare una production guide, un database cioè di tutte le professionalità e le strutture che operano nel territorio. Insomma i vantaggi sono tanti, in un territorio così poco strutturato come quello siciliano. Poi, a Palermo, c’è un cinema molto bello che rappresenta uno dei pochissimi casi in Italia di cinema comunale, si chiama tra l’altro De Seta, dal nome del più grande documentarista italiano, che era siciliano. Un cinema che però ha evidenti problemi di gestione. L’idea insomma è quella di strutturare il lavoro sul territorio. La maggior parte di noi sono emigrati, come Stefano Savona, Giuseppe Schillaci, Marco Alessi e molti altri, ma alla fine tutti loro poi vengono a girare in Sicilia, perché questa, caro mio, è una riserva naturale di storie che non ti immagini. Ah, gestiremo pure il mese del documentario, che quest’anno per la prima volta sarà anche a Palermo.
Dicevi della sala comunale intitolata a De Seta. Dove si trova e come mai non funziona?
Il cinema è stupendo e ha circa 500 posti. Si trova negli spazi dei cantieri culturali Zisa, ma non c’è una persona che lo gestisce. È una sala che costa poco, è bella, ma ha carenze tecniche e la lampada del proiettore in pellicola è stata rotta da qualcuno perché la sala viene affittata per delle conferenze e, non essendoci nessuno che la controlla, poi accade che qualcuno entra in sala di proiezione, accende tutto e brucia le lampade. Il proiettore digitale però è bellissimo. Ma il vero problema, come dicevo, è che non c’è nessuno che la gestisce. E quindi i festival locali, come il Queer, il Sole Luna, alla fine l’abbandonano perché non hanno nessun referente e, nel momento in cui dovesse esserci un problema tecnico, non saprebbero a chi rivolgersi.
Quindi il Queer non lo fanno là?
Avrebbero voluto, ma hanno dovuto rinunciare. Se ne sono andati in un cinema del centro dove spendono di più, però hanno una garanzia sulle proiezioni.
Qual è perciò la vostra proposta in relazione alla sala De Seta?
Di proporre al comune una personalità addetta alla sala che si occupi di gestirla, con cui poter interagire. Anche un impiegato del comune, perché no. Se non sono in condizione di assumere del personale nuovo, almeno spostarci qualcuno, possibilmente competente, se c’è. Poi, tra le altre cose, c’è anche l’idea di proporre una rassegna annuale di documentari.
Secondo te l’idea dei Documentaristi siciliani potrebbe nascere come movimento, al di là e oltre il network, oppure avete poche cose in comune tra di voi?
In comune abbiamo il disagio di fare un mestiere che qui non riusciamo a fare, e che viviamo quasi tutti altrove ma, come spesso i siciliani, alla fine questa terra che amiamo e odiamo al limite del patologico ci riempie di entusiasmo. Come dire, vivere o lavorare qui è una guerra che ci appartiene.
Quindi, paradossalmente, l’aspetto che vi accomuna di più è il vivere quasi tutti altrove, perciò la nascita di un movimento è praticamente impossibile.
Beh, sai, quello che sta succedendo in Sicilia è davvero drammatico. Se provi ad andare a quei pochi eventi culturali che si organizzano vedrai che lo spettatore più giovane ha 60 anni. Qui l’emigrazione ha raggiunto le tragiche proporzioni d’inizio novecento, se non peggio, e tutto sta lentamente – ma neanche tanto – marcendo. In città trovi gli universitari e poi si passa direttamente ai quarantacinque-cinquantenni, che sono riusciti a sistemarsi qualche anno fa. Il quadro è desolante e offre poco ottimismo, ma come diceva qualcuno: “Solo gli ottimisti sono incapaci di capire cosa significhi amare un ideale impossibile”, e in Sicilia di impossibilità ci viviamo. Delle due generazioni intermedie non ne trovi più alcuna traccia nelle nostre città, a meno che non siano commercianti, perché qui, nonostante la crisi, non si sa com’è ma si continua a mangiare e a bere fuori in tutti i mesi dell’anno. Parlando di Catania, la mia città, che negli anni ‘90 veniva chiamata la “Seattle d’Italia” per il fermento e l’avanguardia musicale, oggi ogni energia viene investita in nuovi pub. Solo che non si fa più avanguardia, si vende carne di cavallo e vodka. Se apri un’attività culturale chiudi nel giro di sei mesi. Ti basterebbe fare un giro per il centro durante il fine settimana: non trovi altro che ragazzini vestiti malissimo che sbraitano e distruggono tutto consumando alcolici di pessima qualità. Questa è diventata la Sicilia. In questo quadro è chiaro che la mancanza di documentaristi è “a minu spisa”, la spesa minore, come si dice da noi, ma resta il fatto che anche noi siamo i grandi, seppur irrilevanti, assenti. C’è chi vive in Francia, chi a Londra, chi si ostina a sperare nelle coltri romane, io con molta fatica faccio avanti e indietro, ma non credo che ce la farò per molto ancora. Vivere in un deserto culturale non è piacevole, e si ha la sensazione di non crescere più, tagliati fuori come siamo dal mondo reale, ma la cosa peggiore è che qui questo lavoro non esiste e non si riesce né a viverne né a sopravviverci. La Sicilia è una terra fantastica, mitologica, culla della civiltà e delle contraddizioni della società moderna, e per questo è piena di ispirazioni, potresti girarci 10 documentari all’anno e non averne mai abbastanza, però per il resto è un disastro. Ed è un peccato perché abbiamo una luce magnifica, location sublimi, ma avere a che fare poi con la concretezza qui, oggi come sempre, è davvero dura. In effetti se ci pensi non abbiamo altro: potremmo vivere nell’opulenza grazie alla cultura, al paesaggio e a tutti quei beni immateriali che il resto del mondo ci invidia, ma non ne siamo mai stati capaci. Per molti di noi la Sicilia è stata una bellissima e dolorosa riscoperta, la realizzazione del fatto che ognuno di noi come narratore vale nella misura in cui racconta un universo specifico e particolare, e di cui dopo aver studiato e iniziato a lavorare fuori vorremmo riappropiarci. Perché non c’è altro valore, credo, e questo vale in generale, se non il nostro essere diversi.
Parlavamo di De Seta a proposito della sala intitolata a lui. Se vogliamo, il grande cinema documentario nasce proprio con De Seta, con Lu tempu di li pisci spata.
Sì, è così. La Sicilia è sempre stata una terra fertile per l’arte in generale forse per questo disperato bisogno che proviamo di concretizzare in un segno l’assoluto, assieme all’eterna disperazione del quotidiano affranto dalla disillusione e imbevuto della poesia di un astrattismo puerile e vitale; e anche per il cinema documentario, perché la stratificazione di culture ci ha reso un’enciclopedia filmabile. Oltre a De Seta, poi, ci sono altre figure importanti, come ad esempio il principe Francesco Alliata o Ugo Saitta: un documentarista catanese che ho usato molto per I fantasmi di San Berillo. Pensa, lui era il corrispondente dell’Istituto Luce che ha fatto il famosissimo servizio per la morte di Salvatore Giuliano. Non a caso, tra l’altro, a Palermo hanno aperto il Centro Sperimentale di Cinematografia per il Documentario.
Date le premesse su De Seta e considerando un aspetto forse fondamentale del suo cinema – cioè il fatto che non si sia mai posto come “autore”, ma come narratore di cose, aspetti, eventi, ecc., pensi che, oltre al cinema di finzione, anche il cinema documentario debba riscoprire una sorta di “missione” del racconto, raccontare cioè delle storie precise con una messa in scena precisa e coerente e non essere autoreferenziale, evitando di perdersi in una sorta di casualità dello sguardo?
Penso che raccontare delle storie sia l’unica cosa che conti, e non credo che si sia una differenza tra cinema documentario e cinema di finzione in tal senso. È solo una questione di stile: come dire che suoni blues o jazz, o che per dipingere usi gli acquarelli o i colori a tempera. Certo, di questo passo potremmo arrivare a sostenere che la fiction altro non è che un documentario sul tentativo, da parte di un gruppo ristretto di persone per lo più benestanti e spesso ignari di cosa sia realmente la vita, nonché incapaci di interagire con essa – capacità invece fondamentale per chi si occupa di documentari – di rappresentare un dramma, una commedia recitata a spezzoni; così come il documentario non fa altro che registrare la messa in scena in diretta di una realtà che ha per protagonisti un gruppo ristretto di attori non pagati e che non hanno mai studiato dizione, per mano di un avventuriero scapestrato e con poco budget. Potremmo anche dire tutto questo, e magari ci aiuterebbe a liberarci un po’ del fardello della realtà, da un lato; del nostro ego e dalle sue sempre frustranti affermazioni, dall’altro. Il documentarista che non ha niente da dire e che si limita alla disperata ricerca di una realtà interessante da filmare è un animale pericoloso, perché cade in questo peccato (del) capitale, di sfruttamento di una realtà che, per altro, presa così com’è, è soltanto la mortificazione stessa della realtà, della vita: una vita che se ci limitiamo a registrare e organizzare grammaticalmente in un report di cui vogliamo prenderci i meriti semplicemente per il fatto di averla scovata e fatta emergere, non abbiamo fatto altro che uccidere una storia all’immaginazione collettiva, allo stesso modo di come gli indigeni d’inizio Novecento erano convinti che i fotografi uccidevano i loro greggi mentre li fotografavano. Il tempo ha dato ragione a questi indigeni. Allo stesso modo il documentario che si compiace del linguaggio che adopera, è peggio del cinema di finzione con una pessima messa in scena. Il documentario ha un valore nel momento in cui siamo capaci di tessere le trame nell’aria, associando un gesto preesistente al nostro universo immaginifico. È l’associazione drammaturgica tra l’ineluttabile e l’intenzione, a rendere vivo un documentario. E dunque il documentario o la finzione non sono che due metriche diverse scelte per la narrazione di una storia. La particolarità del documentario, rispetto alla finzione, è che qui la realtà rappresenta l’inconveniente più fastidioso per il film che sta cercando di emergere, e forse il più grosso ostacolo alla drammaturgia. Accade così che in questo genere di film si è naturalmente indotti, schiacciati dalla morsa tediosa della realtà, ad indagare il linguaggio. Il documentario diventa così il terreno più adatto alla sperimentazione linguistica, che è la sola cosa che dovrebbe veramente interessare a un narratore, il quale per ogni immagine che produce deve chiedersi questa che senso abbia, cosa la distingue dalla massa informe che ha invaso la nostra percezione e chiedersi se non sia soltanto l’idea vuota di un vuoto “voler fare”, o “voler appartenere”. In altre parole oggi nel cinema nostrano credo si sia dimenticato che la sperimentazione linguistica può e deve coesistere con una centralità della narrazione di una o più storie, che sono l’unica cosa che ha importanza, dai primi graffiti dei primitivi nelle grotte ad oggi.