Philip Seymour Hoffman: il corpo dell’attore
In circa vent’anni di carriera, Philip Seymour Hoffman ha dato vita a personaggi mutevoli e debordanti. Forte di una tecnica e di una fisicità inconfondibili
Il corpo dell’attore. Max Ophüls soleva dire che una delle risorse profonde del cinema si configurava nella tensione che si viene a creare tra il corpo dell’attore e l’evanescenza dell’immagine. Philip Seymour Hoffman, che pure aveva una voce inconfondibile e profondamente espressiva, era soprattutto corpo d’attore, tutto fuorché evanescente, prepotentemente materico. Così era lentamente emerso dai ruoli secondari, così lo ricordavamo nei primi film, quando già la sua faccia si stampava indelebile nella nostra memoria, ma ancora avevamo difficoltà a ricordarne il nome. E, una volta scoperto il nome, era difficile rammentarne la lunga composizione. Un corpo enorme eppure armonioso, di cui non avremmo potuto immaginare una parte senza il resto. Quel viso che visto da vicino si presentava con piccole grandi mostruosità (le sopracciglia di un lupo, stranamente scure malgrado i capelli biondi; gli occhi piccoli dispersi in una faccia amplissima; l’incarnato rosso-bianco), la stazza imponente, il passo indolente e sornione. Le prime uscite importanti al cinema, del resto, giocavano scopertamente con i suoi tratti psico-lombrosiani. Compagno di scuola di Chris O’Donnell nel superfluo Scent of a Woman (1992) di Martin Brest, già appariva incongruo, non tanto e non solo per l’apparenza anagrafica sballata (accanto all’efebico O’Donnell di allora, sarebbe sembrato vecchio anche Dorian Gray), ma anche per l’aspetto irregolare, non allineato, decisamente a disagio nei cappotti di un college da Attimo fuggente.
In seguito Hoffman percorre una strada non più così frequente nel cinema americano degli ultimi vent’anni, ovvero un graduale sdoganamento da caratterista a primattore, continuando però a oscillare tra i due poli, poiché l’industria e gli autori alterneranno film cuciti addosso al suo particolare istrionismo, a più consueti ruoli secondari di smagliante sagacia. La sua è una vera e propria gavetta, tanto che alcuni dei suoi primi film sono del tutto dimenticabili, e i suoi ruoli pressoché impossibili da rammentare. Il primo ad accorgersi realmente del suo talento è Paul Thomas Anderson, con cui s’instaura un singolare sodalizio: è pur vero che su quasi vent’anni di carriera Anderson ha diretto solo sei film, ma è altrettanto vero che Hoffman appare in cinque di essi. E’ forse in Boogie Nights (1997), infatti, che Hoffman interpreta per la prima volta un ruolo in qualche modo decisivo per il suo percorso artistico. Per la prima volta i suoi tratti fisiognomici trovano una vera lettura da parte di un autore: a quella stessa massa materica d’attore che successivamente sarà reinterpretata in chiave di tenerezza, prevaricazione, sornioneria, secondo un amplissimo prisma di variazioni, inizialmente viene associata l’ambiguità sessuale e una sorta di patetica e umana mostruosità. Così è per il viscido e complessato personaggio di Boogie Nights, e per uno dei suoi ruoli più memorabili ed estremi: il maniaco sessuale di Happiness (1998) di Todd Solondz, che secondo una torsione estetica a cui Solondz ci ha ormai abituati tenta una spericolata empatia spettatore-personaggio con una figura umana grottesca e repellente come poche se ne sono viste al cinema.
Da lì in poi, una cavalcata imperiosa nel cinema migliore, sia mainstream sia indipendente, della produzione americana più recente. E’ anzi ammirevole la destrezza con cui Hoffman riesce a districarsi, sul finire degli anni ’90, dagli stereotipi a cui la sua carriera rischiava di piegarsi. Invischiato infatti nel pessimo Flawless (1999) di Joel Schumacher, in cui l’ambiguità veniva non a caso cancellata nella netta adesione a un rassicurante personaggio di drag queen, Hoffman dà una netta sterzata e si mette a sperimentare. Sperimentare se stesso, come in cerca di una costante credibilità multiforme. Un corpo d’attore che aderisce con la stessa disinvoltura all’untuosa repellenza, alla più feroce rapacità e alla più calda umanità. E, talvolta, per divertirsi, anche alla più sbrindellata cazzoneria (mi si passi il termine). Paradossalmente, il ruolo in cui risulta meno interessante è proprio quello che lo consacrerà definitivamente e gli conferirà anche una diffusa notorietà internazionale. Il mimetismo millimetrico dimostrato in Capote (2005) di Bennett Miller è infatti impressionante, e supera di gran lunga l’abitudine tutta hollywoodiana (e tutta da Academy) della prova attoriale camaleontica. Per intenderci, la Thatcher di Meryl Streep è una raffinatissima imitazione, ma imitazione resta, in cui la Diva sotto al personaggio scalpita e, in definitiva, prevale: il Capote di Hoffman è Truman Capote. Tale e quale, rimesso in vita, dalla voce ai gesti, alla cinica freddezza di parole e sorrisetti. Non la reinterpretazione di un attore, ma una sorta di resurrezione. Tuttavia, l’operazione resta di altissima e gelidissima scuola, incastonata in un film irrisolto e involuto, in cui oltretutto il camaleontismo del primattore risulta singolarmente fuori luogo rispetto alla riflessione umana che la ricostruzione di come fu scritto “A sangue freddo” vorrebbe suscitare. Assai più interessanti, invece, appaiono certi personaggi sfumati e imprendibili, come l’amico fedele di La 25a ora (2002) di Spike Lee, o il fratello ottimista di La famiglia Savage (2007) di Tamara Jenkins. E tutto sommato anche l’ “angelo infermiere” Phil Parma di Magnolia (1999), opera che a tutt’oggi è impossibile amare senza odiarla un po’, in cui lo stesso Hoffman, attore sempre intenso e misurato, si lascia andare a gigionerie inaudite. Al puro cazzeggio tra amici appartengono invece altre divertite partecipazioni, come nell’enigmatico Ubriaco d’amore (2002) di P.T. Anderson e nel prettamente commerciale E alla fine arriva Polly (2004), forse l’unica vera sortita dell’attore nel pecoreccio andante.
Negli ultimi anni stava emergendo invece un altro profilo d’attore, alle prese con personaggi enormi e demiurgici, dai tratti spiccatamente wellesiani. Il richiamo più evidente è nel suo ultimo grande film, The Master (2012), in cui Hoffman cita più o meno consapevolmente i personaggi tragicamente debordanti di Orson Welles, alle prese con le isteriche illusioni delle masse. Aleggia il fantasma di Charles Foster Kane dietro l’ambiguo affabulatore Lancaster Dodd, che ha un viscerale bisogno degli altri perché il suo mito possa esistere. Gigante e vampiresco. Sul filo del puro e sopraffino cesellatore di caratteri si colloca invece il personaggio narrativamente funzionale di Le idi di marzo (2011) di George Clooney, opera tanto detestabile quanto ottimamente interpretata. Ma dietro a un attore dai così tanti volti, forse il vero nucleo pulsante va ricercato nell’unico film da lui diretto, quel Jack Goes Boating (2010) che adesso tutti quanti si affannano a recuperare – sarà trasmesso da RaiMovie stasera. Per una tragica ironia proprio in questi giorni si sono sovrapposte in rete le notizie della morte di Hoffman, e dell’entrata in produzione del suo secondo film da regista, Ezekiel Moss, che prevedeva nel cast anche Jake Gyllenhaal e Amy Adams. E’ notizia recentissima, invece, che il progetto del film sarà sospeso e non sarà venduto alla prossima imminente Berlinale. Jack Goes Boating prometteva assai bene, e mostrava un Hoffman autore decisamente inaspettato. Sottotono, intento a raccontare una storia piccola e intensa, che non arretra davanti a nulla (come i suoi personaggi degli esordi) ma lontano da qualsiasi approccio morboso. Il corpo dell’attore è di nuovo protagonista, come forse mai altrove nella sua pur fitta carriera: esibito in piscina, nei primissimi piani, nell’incontro con la donna timidamente amata. Un’asserzione decisa e irremovibile nel suo semplice dire “Io ci sono. Sono qui”. L’attore che insieme a Ethan Hawke era stato capace di uno dei massimi delitti nell’eccellente Onora il padre e la madre (2007) del venerabile Sidney Lumet, si congeda al contrario con un’immagine di tormentata e serena affermazione di sé. Io ci sono. Sono qui.