A Field in England

A Field in England

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Ennesima dimostrazione del genio folle di Ben Wheatley, un viaggio psichedelico, ammaliante e privo di compromessi. A Field in England è la messa in scena epilettica, visionaria ma solo all’apparenza inconcludente di un’umanità senza arte né parte, in vigliacca fuga da una guerra che non capisce e incapace di muoversi nel mondo che la circonda. Al MEFF 2014.

L’alchimista

Inghilterra, durante la guerra civile. Un piccolo gruppo di disertori fugge dalla battaglia attraverso un campo incolto. Vengono catturati da due uomini: O’Neil e Cutler. O’Neil, un alchimista, costringe il gruppo ad aiutarlo nella sua ricerca di un tesoro nascosto che crede sepolto nel campo… [sinossi]

Estendendo ed estremizzando la riflessione sull’immagine ricreata come rappresentazione (im)materiale del subconscio e dell’irrazionale, si potrebbe arrivare a definire il cinema nella sua essenza primaria come elemento psicotropo, creatore di allucinazioni oniriche, magnifica ossessione che asservisce la corteccia cerebrale al dominio anarcoide e incontrollato dell’occhio. Non sono a dire il vero molti i registi in grado di inquadrare il cinema in quest’ottica caleidoscopica, ed è un peccato che un nome come quello di Ben Wheatley non sia finora tenuto nella doverosa considerazione. Da quando ha esordito nel 2009 con Down Terrace, Wheatley ha scavato un solco profondo nell’immaginario del cinema anglosassone contemporaneo, applicando a un potenziale visionario difficilmente catalogabile le regole del genere e un humour prettamente britannico, sulfureo e crudele: titoli come Kill List e Sightseers (uscito inaspettatamente anche in Italia con il ben meno ironico Killer in viaggio) permettono di cogliere in pieno lo spirito di Wheatley, e il suo approccio alla materia cinematografica.

Anche per i fedeli seguaci del suo cinema un’opera come A Field in England (in concorso nel luglio del 2013 a Karlovy Vary e presentato in Italia durante le giornate dell’ottava edizione del Mosaico d’Europa a Ravenna) rischia di apparire come un triplice salto mortale in avanti: ambientato alla metà del Diciassettesimo Secolo, durante la Guerra Civile Inglese che vide contrapporsi i parlamentaristi di Oliver Cromwell e i monarchici nell’ambito di quella frattura – in parte tuttora insanabile – conosciuta come Guerre dei Tre Regni, A Field in England è un viaggio psicogeno per il quale non è prevista alcuna via d’uscita. La storia dell’assistente alchimista Whitehead che viene reclutato, insieme a tre soldati disertori, da O’Neill per rintracciare un fantomatico tesoro sepolto in un campo è solo lo specchio per le allodole che Wheatley allestisce, coadiuvato dalla scrittura della sodale consorte Amy Jump, per celarvi all’interno il segreto (alchemico?) della sua poetica volutamente vaneggiante, ellittica e paranoide.
Costretto tra mangiate collettive di funghi, A Field in England è la messa in scena epilettica, visionaria ma solo all’apparenza inconcludente di un’umanità senza arte né parte, in vigliacca fuga da una guerra che non capisce e incapace di muoversi nel mondo che la circonda. L’avventura picaresca sotto acido di Whitehead e dei suoi compagni di (s)ventura fa emergere il sogghigno persistente di Wheatley, la sua pervicace volontà di scardinare i generi e sovvertire anche le situazioni più canoniche (la “missione” che Friend lascia a Jacob durante l’agonia è in tal senso a dir poco esemplificativa dello spirito che pervade A Field in England), arma definitiva e vincente contro qualsiasi rischio di appiattimento.

A Field in England è un campionario di originalità, a partire dalla già citata fuga psicogena della trama fino a una messa in scena che annulla la temporalità in un bianco e nero plumbeo, per poi bombardarlo di lampi, immagini pulsanti e montate a una velocità così stordente da risultare persino pericolose per chi soffre di epilessia fotosensibile: la caduta nel mælström dell’assurdo è così totale e priva di paracadute da costringere lo spettatore a lasciarsi abbagliare e dominare dal mondo che prende vita sullo schermo. Come i soldati che seguono l’alchimista sulla via dello stordimento e della distruzione con la sola chimera di una bevuta in birreria, anche il pubblico di A Field in England è condotto per mano da Wheatley sull’orlo di un burrone, e poi oltre. Al di là del godimento di fronte all’estasi visionaria del film e alle battute che si rimpallano i protagonisti, A Field in England richiede un atto di fiducia, l’accettazione di una realtà altra che non segue regole prestabilite e in cui tutto non è solo possibile, ma necessario e ineluttabile.
Sorta di versione allucinata e delirante di Winstanley di Kevin Brownlow e Andrew Mollo, A Field in England è un viaggio psichedelico senza colori, in cui non esistono morte e vita (in questo sarebbe interessante approfondire il discorso proponendo un parallelo azzardato ma non così folle con il western lisergico di Jim Jarmusch, Dead Man), ma solo loro percezioni subliminali. Un film a basso costo (si parla di un budget stimato sulle 300.000 sterline) destinato a rimanere probabilmente materia per pochi, ma che conferma le eccellenti doti registiche del quarantaduenne Ben Wheatley, divertito eversore del nuovo cinema britannico.

Info
Il sito ufficiale di A Field in England
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