Intervista a Thomas Bertacche
Abbiamo approfittato delle giornate del Far East di Udine per intervistare Thomas Bertacche, per parlare non solo del festival che dirige insieme a Sabrina Baracetti, ma anche della Tucker Film, società di distribuzione di pellicole asiatiche come Departures e Confessions e di film friulani come Tir e Zoran, il mio nipote scemo.
Dopo l’intervista a Vieri Razzini della Teodora, abbiamo deciso di proseguire il nostro percorso nel mondo della distribuzione italiana parlando con Thomas Bertacche della Tucker Film. Nata nel 2008 su iniziativa di Cinemazero di Pordenone e del Centro Espressioni Cinematografiche di Udine, la Tucker ha delle caratteristiche tali da renderla unica nel nostro panorama: da un lato è estremamente “localistica” perché distribuisce film friulani (Rumore bianco e Tir di Alberto Fasulo, L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin, The Special Need di Carlo Zoratti, Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto, ecc.), dall’altro è fortemente internazionale perché, visto lo strettissimo legame con il Far East, permette di vedere in Italia film asiatici che altrimenti resterebbero sconosciuti da noi (tra gli altri, il premio Oscar Departures di Yojiro Takita, Poetry di Lee Chang-dong, A Simple Life di Ann Hui, Confessions di Tetsuya Nakashima).
Abbiamo perciò approfittato delle giornate della 16esima edizione del Far East di Udine per incontrare Bertacche e parlare con lui sia del festival che dirige insieme a Sabrina Baracetti (che, in pieno svolgimento festivaliero, ci ha potuto raggiungere nel corso dell’intervista solo per pochi minuti) sia, per l’appunto, delle specificità della Tucker e, infine, più in generale, di cosa si muove nel mondo della distribuzione italiana.
Con la 16esima edizione del Far East – la 17esima se si conta anche l’edizione zero dedicata a Hong Kong – siete quasi arrivati alla maggiore età e siete entrati nella prassi della consuetudine festivaliera. Pensate che il Far East debba restare così com’è o che debba modificarsi?
Thomas Bertacche: Deve assolutamente modificarsi, non può restare uguale a se stesso perché altrimenti sarebbe ridicolo. E poi comunque già nel tempo si è modificato. Era partito da una situazione in cui la conoscenza di ciò che accadeva nel cinema dell’Estremo Oriente era molto labile, quasi inesistente. Ci sono poi delle modifiche che si sono fatte a livello organizzativo e altre che sono legate a quel che arriva da lì: per esempio, non è che noi abbiamo scelto quest’anno di fare un focus su Hong Kong, è che Hong Kong ha prodotto ben dodici film “contro” la Cina. In questi ultimi anni, poi, ci siamo resi conto che vengono qui a Udine tantissimi ragazzi che magari non scrivono, non sono critici, non sono nemmeno studenti di cinema, ma hanno un cultura cinematografica incredibile a proposito dell’Estremo Oriente, dalla Cina alla Corea, al Giappone soprattutto. E ce l’hanno grazie a internet, evidentemente. Quindi non hanno bisogno di venire qui per vedersi i film. Hanno bisogno di venire qua per vederli su grande schermo e per trovarsi e ritrovarsi tra di loro. Ed è del resto questo un aspetto che regge il cinema da sempre, il fatto cioè che sia un fenomeno sociale. Da parte nostra, poi, noi dobbiamo fare una programmazione che sia legata a quello che il pubblico si aspetta da noi, mettendo film popolari e/o di genere – perché talvolta anche i film di genere non è che siano automaticamente popolari – e cercando di stimolare lo spettatore con qualcosa di diverso ogni tanto, con magari certi film filippini sulla carta di minore appeal. L’idea di fondo resta comunque quella di fare dei film per cui la gente quando entra in sala si diverte. Inoltre, c’è da capire anche che senso ha fare un festival adesso, perché chiunque può vedere i film su internet, non solo i ragazzi. Anch’io, come distributore, vedo un’enorme quantità di film su vimeo, youtube o cinando, non ho bisogno di un festival per aggiornarmi. Quindi bisogna sviluppare un po’ di più quello che è l’aspetto per gli addetti ai lavori, come facciamo ad esempio con Ties that Bind che è un corso di formazione professionale e che deve essere affiancato da altre iniziative. Vogliamo capire se siamo in grado di realizzare qualcosa di nuovo, perché comunque sei a Udine e i finanziamenti non è facile averli, visto che per ogni nuovo progetto bisogna trovare 100mila euro in più. D’altra parte c’è anche una spinta della Comunità Europea che porta a un’idea di mescolamento sempre più forte fra la produzione e gli addetti ai lavori europei e la produzione e gli addetti ai lavori asiatici. Insomma credo che, non nella diciassettesima edizione, ma nella diciottesima prepareremo qualcosa di diverso da questo punto di vista.
Come va con i fondi con il nuovo governo regionale di centrosinistra?
Thomas Bertacche: Va meglio, indipendentemente dalla politica in questo caso. L’assessore alla cultura della Regione Friuli Venezia Giulia, Gianni Torrenti, è una persona che viene dall’ambiente associativo e ha creato un teatro a Trieste che si chiama Teatro Miela, dedicato alla sperimentazione. Torrenti è un nostro amico da sempre e conosce bene il festival. Quindi siamo ritornati vicino ai finanziamenti che avevamo tre anni fa. Comunque, in ogni caso, neanche la giunta precedente avrebbe voluto fare tagli se non ci fosse stata una situazione di crisi importante.
Scorrendo la selezione di quest’anno del Far East vediamo che c’è anche un film co-prodotto da voi della Tucker, il giapponese Fuku-chan of Fukufuku Flats di Yosuke Fujita. Come è andata?
Thomas Bertacche: È stato un modo per lavorare insieme a delle persone che conosciamo da tempo, dal produttore Adam Torel, che ha promosso la co-produzione internazionale, a Stephan Holl, a James C. Liu di Taiwan. Chiaramente quando siamo partiti eravamo terrorizzati, poi dopo aver visto il film eravamo più sereni perché è venuto bene e ci è piaciuto parecchio. Adesso vedremo come distribuirlo, non credo in sala. Sarebbe carino riuscire a fare una distribuzione europea, magari nella stessa data, mettendo in commercio il DVD e facendolo anche in VOD [Video on Demand, n.d.r.] con i sottotitoli in diverse lingue. Del resto l’unico modo per rendere profittevole il mercato del VOD è puntare sulla distribuzione europea, perché il mercato italiano per film così non è sufficiente.
Quindi questa co-produzione è un esperimento che vi ha soddisfatto al punto tale da pensare che possa essere replicato?
Thomas Bertacche: Sì, in effetti è una cosa che si può fare. Se ci sono altre situazioni di questo tipo, si farà. Forse adesso, sempre con Stephan Holl, abbiamo un’altra possibilità, sempre di un film giapponese. Credo che il Giappone sia il territorio con cui è più facile lavorare. In ogni caso non è questo il nostro primo obiettivo.
Ma era il vostro primo caso di co-produzione?
Thomas Bertacche: Sì, anche se in realtà noi vorremmo essere solo distributori, perché la produzione è una cosa un po’ diversa. A suo tempo eravamo entrati in co-produzione piccola con L’estate di Giacomo. Fuku-chan invece è il primo caso con l’estero.
Perché preferite essere solo distributori?
Thomas Bertacche: Quello del produttore è un altro mestiere. È un lavoro completamente diverso, di ricerca di fondi e di finanziamenti. Già la distribuzione ha tempi piuttosto lunghi, la produzione ha addirittura tempi infiniti. Mi annoio a morte a pensare a un progetto quattro anni prima di poterlo vedere realizzato. Quindi non è che ho questa grande ambizione. Ma, al di là delle battute, credo sia meglio che ognuno faccia quel che sa fare.
Come è nata nel 2008 l’idea di fondare la Tucker in un momento piuttosto chiuso dal punto di vista distributivo? Poi, dopo di voi, soprattutto negli ultimissimi tempi, sono nate altre società di distribuzione, magari seguendo il vostro modello.
Thomas Bertacche: Forse, non so se siamo un modello. Comunque sono contento che ci siano altre società nuove, nate nell’ultimo anno, anno e mezzo. Grazie a Dio sono nate perché la concorrenza è fondamentale per permettere a questo sistema di svilupparsi e di evitare di restare ancorato alle logiche che lo hanno dominato negli ultimi vent’anni. Se il sistema distributivo si chiude su se stesso, si riduce anche il ventaglio delle offerte. È anche abbastanza normale che quando fai un’operazione che va bene tendi a rifarla le volte successive. Oppure se un’operazione va male tendi a non farla più. È successo in Italia per i film asiatici. Dopo due o tre flop la distribuzione italiana si è quasi totalmente convinta che distribuire film asiatici porti sfiga, che ti fa perdere i soldi. Quando siamo nati noi, lo abbiamo fatto su scala un po’ più piccola o perlomeno diversa. Ci siamo convinti che quello che facciamo a livello locale, in questo caso nei cinema di Udine e Pordenone, sia un po’ sprecato solo per queste città. Le cose che proponi al tuo pubblico, nel tuo cinema, puoi provare a proporle anche su una scala più ampia, nazionale. Nel 2008 c’era Rumore bianco di Alberto Fasulo. L’avevamo visto, era molto bello e ci sembrava di poter fare un lavoro di promozione del film su tutto il territorio nazionale.
Quindi la Tucker è nata da quel film, sulla scorta insomma della volontà di distribuire Rumore bianco?
Thomas Bertacche: Sì, è nato tutto da lì. Poi abbiamo avuto la fortuna – forse anche legata a quello che dicevamo prima e cioè all’idea che l’Asia porti sfiga – che poco tempo dopo ci fosse questo film, Departures, che avevamo mostrato qui, che aveva vinto l’Oscar come miglior film straniero, che era andato al mercato di Cannes a maggio e nessun italiano lo voleva comprare – figurati è una storia di becchini asiatici, proprio il massimo della sfiga, leggi solo la trama e ci metti una barra sopra. Insomma, alla fine l’abbiamo comprato noi, era un film molto bello, con delle caratteristiche che potevano farlo funzionare anche in Italia e ha avuto un grandissimo successo. In questo modo ci siamo lanciati anche con la distribuzione di film asiatici, valorizzando perciò alcuni dei titoli che passano al Far East e costruendo una base di lavoro che ha permesso, ad esempio, di sviluppare il rapporto con Rai 4, che ogni anno prende diversi film e li programma in TV. Perciò da una parte abbiamo avuto la possibilità di lavorare con i film per il cinema, come Departures, Poetry, A Simple Life, dall’altra abbiamo potuto sviluppare un discorso sul cinema di genere più vicino a quella che è l’identità del Far East grazie a Rai 4 che prende una decina di film all’anno.
Con Rai 4 c’è un accordo preciso, nel senso che ogni anno prendono dieci film?
Thomas Bertacche: No, non c’è un accordo preciso. Diciamo che loro sono partiti con la prima rassegna che era di dieci film e, avendo dei buoni riscontri, ogni anno devono comunque proporre dei film diversi. Loro vengono qui a Udine durante il festival, si vedono tutti i film, li scelgono attentamente, hanno una conoscenza precisa di questo tipo di cinema. Perciò un anno possono essere otto, un anno dieci. Del resto finché la gente li vede, fino a quando lo share è buono, si va avanti. Ed è anche interessante vedere quali sono i film che funzionano in televisione: i film di arti marziali al primo posto, poi gli epici, e solo in un terzo momento parliamo di action. Le commedie, invece, lasciamo perdere. Neanche Castaway on the Moon di Lee Hey-jun è andato bene…
Come vi trovate con la distribuzione a livello nazionale? Quali sono ad esempio i vostri rapporti con il Circuito Cinema, l’esercizio specializzato nel cinema d’autore. Costituisce un blocco unico, oppure riuscite a collaborarci?
Thomas Bertacche: Il Circuito Cinema non è una società deputata a distribuire il cinema d’autore. È una società di proprietà di alcune distribuzioni indipendenti, quindi il primo scopo di Circuito Cinema è fare in modo che il prodotto di queste distribuzioni indipendenti trovi spazio nelle sale delle varie città italiane. Questo è l’obiettivo primario ed è il motivo per cui è nato Circuito Cinema. Poi può succedere che ci siano dei film di distributori che non fanno parte di Circuito Cinema che trovano spazio nelle sale, ma succede perché evidentemente hanno un importante potenziale di richiamo. Noi comunque ci lavoriamo. Purtroppo però succede che in Italia, nelle due città più grandi, Roma e Milano, che dovrebbero essere il traino del paese e dovrebbero permetterti di vivere distribuendo e basta – o perlomeno di recuperare la spesa – non ci sono sale indipendenti importanti a livello economico. A Milano c’è il Cinema Messico, una sala, che ha l’abitudine corretta, per esempio, di tenere i film a lungo. Oppure c’è il Beltrade che è appena nato. A Roma c’è il Kino…
Ci sono anche il Nuovo Cinema Aquila, in parte anche il Farnese…
Thomas Bertacche: Sì, però c’è un ritorno economico molto basso anche perché le sale non sono grandi. Roma dovrebbe avere qualcosa in più. Negli anni Settanta ad esempio queste sale indipendenti c’erano. In Francia c’è Parigi dove arriva qualsiasi cosa, in Germania ci sono Berlino e Monaco che compongono un’importante offerta culturale. Ma d’altro canto con il digitale molte cose cambieranno perché porterà con sé la facilità della multi-programmazione, il che vuole dire banalmente che la mattina e il pomeriggio si fanno i film per i bambini, la sera quelli per gli adulti. Questo comporterà anche una programmazione diversa all’interno di una settimana. Ciò però richiederà di avere un direttore di sala, che conosce i gusti del pubblico e che capisce cosa programmare e quando. Ci saranno più film da poter vedere insomma. Adesso siamo ancora in una fase di passaggio, perché ad esempio ora c’è un problema che riguarda le retrospettive dal momento che, a partire dal 2011 e tornando a ritroso nella storia del cinema, i film sono tutti in pellicola, ma i cinema non hanno più il proiettore in 35mm e magari non tutti i film che si vogliono usare per una retrospettiva sono stati digitalizzati. Questo significa anche però che nel giro di pochi anni molti film saranno messi in condizione di essere proiettati ed è il motivo per cui abbiamo comprato sei film di Ozu, oltre al fatto che sono dei restauri digitali eccezionali. Certo non pensiamo di farci i soldi, ma credo che, forse non in tempi brevi, riusciremo, magari con qualche proiezione in giro per l’Italia, a rifarci della spesa.
[Nel frattempo ci raggiunge Sabrina Baracetti, n.d.r.] Nelle due sale in cui si svolge il Far East, vale a dire il Visionario e, soprattutto, il Teatro Giovanni da Udine, ci sono ancora proiettori in 35mm.?
Sabrina Baracetti: Al Visionario c’è ancora in una delle sala, la Sala Astra, ma non è settato in questo momento. È lì pronto nel caso in cui dovessimo proiettare qualcosa in 35mm e non pensiamo di disfarcene. Invece qui al Teatro Giovanni da Udine non usiamo più la pellicola già dallo scorso anno.
Lo scorso novembre al Festival di Torino abbiamo intervistato Emanuela Martini che ci ha detto che loro manterranno i proiettori in 35mm., anche perché per Torino le retrospettive sono fondamentali. Voi invece avete fatto un altro tipo di scelta, presentando ad esempio quest’anno una retrospettiva di cinque film restaurati in digitale, come Buongiorno di Yasujiro Ozu e Manila in the Claws of Light di Lino Brocka. Come pensate di affrontare questo discorso nei prossimi anni?
Sabrina Baracetti: Vorremmo continuare a lavorare con gli archivi cinematografici asiatici e avere dunque la possibilità di mostrare i film del passato restaurati in digitale.
Thomas Bertacche: Credo che i festival debbano intervenire nel processo di digitalizzazione delle copie. In questo senso le retrospettive devono rappresentare un momento in cui, tra festival e archivi, si crei una sinergia preservando alcuni film. Ad esempio, noi come Far East e come Tucker ci stiamo muovendo per restaurare, senza operazioni importanti di restauro se non una color corrrection, Made in Hong Kong di Fruit Chan (1997). È questo l’unico modo per permettere di recuperare dei film del passato: i festival, insieme agli archivi e ai governi locali, debbono unire le forze per lavorare in questa direzione. Anche a questo servono le retrospettive dei festival oggi.
Però così non c’è il rischio di fare come Cannes Classics, ovvero di comporre le retrospettive prendendo quei film, slegati gli uni dagli altri, che sono stati appena restaurati in digitale e perdendo in questo modo l’idea di una programmazione dettata da scelte editoriali? Un modello che ha seguito ad esempio anche Venezia negli ultimi anni.
Thomas Bertacche: Sì, capisco quello che intendete. Si rischia di fare come alla Berlinale di quest’anno dove si sono inventati la retrospettiva della luce [The Aesthetics of Shadow. Lighting Styles 1915–1950, n.d.r.]. Vale a dire che si sono andati a prendere quello che era stato restaurato in digitale pescando i film in cui c’erano delle luci particolari, poi hanno messo insieme questi film e hanno fatto la retrospettiva della luce. C’erano delle cose bellissime per carità, ma in fin dei conti era una retrospettiva basata sulla stessa idea di Cannes Classics.
Sabrina Baracetti: È vero, può esserci questo rischio. Ma, per fare un esempio, l’archivio coreano sta lavorando molto bene e ci sono già moltissime cose che potremmo mostrare secondo una linea tematica, senza cadere nel rischio di dare questa idea di retrospettiva casuale. E poi, come ha detto Thomas, il nostro obiettivo è di unire il lavoro delle cineteche con quello dei festival, lasciando in qualche modo un segno anche noi e promuovendo alcuni restauri in particolare.
Thomas Bertacche: Siamo cresciuti tutti quanti con le retrospettive monografiche dedicate al singolo autore, ma credo che comunque non sia brutto concentrarsi sul singolo film, gli dai un’importanza molto più alta, ci rifletti molto di più. Certo mi manca non poter vedere tutti i film di Lee Chang-dong, ma anche così è bello. Ciascun film ti dice molto di più, te lo gusti e lo studi in maniera più approfondita.
Sabrina Baracetti: Comunque per il prossimo anno, insieme al nostro consulente per il Giappone Mark Schilling, stiamo lavorando a una retrospettiva dedicata alla fantascienza giapponese.
Per tornare invece alla programmazione delle sale cittadine e alla novità rappresentata dal digitale che ti può permettere di fare diversi film nell’arco dello stesso giorno, non è che si rischia di disorientare lo spettatore? Forse c’è ancora l’abitudine della tenitura settimanale e magari ci si ritrova ad andare in una certa sala, aspettandosi di vedere ad esempio il nuovo film di Woody Allen e invece allo spettacolo pomeridiano c’è un film per bambini.
Thomas Bertacche: Non puoi adeguarti verso il basso, se ti basi sulle abitudini non puoi che andare a rafforzare certe pigrizie. Ad esempio, nelle nostre sale facciamo una programmazione multipla e il pubblico ci ha messo molto poco ad abituarsi. Certo può capitare che, dopo aver lavorato tutto il giorno, alle 20 non hai voglia di andare a vedere un film impegnativo come Tir, ad esempio. E dico questo come battuta, visto che si tratta di un nostro film. Ma è appunto una questione di pigrizia. Poi è tutto relativo perché Udine è una piccola città, gli interessati sai già che sono quei 150, mentre a Roma sono molti di più.
Sabrina Baracetti: Poi oggi la programmazione di una sala la guardi sul telefonino. Non devi andare a cercare il bar aperto per consultare un giornale, è tutto più immediato.
Thomas Bertacche: Le abitudini devono cambiare. E per cambiare le abitudini qualcuno deve iniziare, non possiamo aspettarci che a farlo siano gli spettatori, dobbiamo iniziare noi.
Hai citato uno dei film della Tucker più importanti di quest’anno, Tir che ci sembra un caso emblematico. Ha vinto il Festival di Roma e proprio a Roma ha avuto difficoltà atroci per trovare uno spazio in cui poter essere programmato.
Thomas Bertacche: Sono due le cose da dire relative a Tir. Da una parte non c’è un pubblico che possa permettere a questi film di uscire in una data singola in tutta Italia, ci vuole una sala che ci creda, che lo tenga per un tempo sufficiente per uno o due mesi. D’altra parte è la riprova che c’è un problema tra Marco Müller e Roma, come se la vittoria di Tir al Festival abbia finito per far più danni che altro. Ed è assurdo perché Müller è il più grande direttore di festival che esista.
Quindi la soluzione migliore è che ci sia una sala indipendente che mantenga il film per un certo periodo di tempo?
Thomas Bertacche: Ci vogliono almeno tre schermi. E per tre settimane. Come mi diceva qualcuno in questi giorni, di qui a poco tempo un film di distribuzione normale starà in sala tre settimane, non di più.
[Sabrina Baracetti è costretta a tornare al lavoro sul festival, quindi la salutiamo e proseguiamo l’intervista con Thomas Bertacche, n.d.r.] Cosa ne pensi del VOD?
Thomas Bertacche: I risultati al momento sono quasi zero. Noi per esempio solo con Ip Man siamo riusciti a fare qualcosa. Ma è un mercato che prima o poi decollerà, almeno nel momento in cui costerà poco e sarà molto ravvicinato all’uscita in sala, anche perché un film non lo puoi promuovere tre volte, cioè quando esce in sala, in VOD, poi in home video e in televisione. Diventa troppo oneroso. E poi è un discorso che si svilupperà per forza a livello europeo, perché alcuni film non possono funzionare solo sul mercato italiano. Inoltre bisognerà vedere quale metodo finirà per prevalere sugli altri, perché adesso non c’è solo il VOD, ma anche il TVOD [True Video On Demand, n.d.r.] o l’AVOD [Audio and Video On Demand, n.d.r.]. Non ho idea se funzionerà come per la musica, per cui avrai il film gratis sorbendoti un po’ di pubblicità, che è come funziona l’AVOD ed è una cosa che cerchiamo di evitare perché se fai vedere il film gratis poi hai dei problemi quando lo vuoi vendere per le TV o per l’home video. Insomma, non so quale di questi sistemi vincerà, ma sicuramente la gente vuole vedere i film quindi uno di questi finirà per prevalere. Il problema per la distribuzione è trovare il modo di farsi pagare e sconfiggere la pirateria e l’unico modo per fare questo è arrivare prima di loro, farsi pagare poco e offrire una qualità sicura.
La Tucker è forse l’unica realtà distributiva italiana molto radicata sul territorio e con una linea editoriale molto precisa. Voi infatti, ad eccezione forse di Amore carne di Pippo Delbono, avete distribuito tra i film italiani solo prodotti friulani, quindi siete al tempo stesso molto locali e molto internazionali, visto che distribuite film dell’Estremo Oriente. In particolare, relativamente ai film friulani, sembra che ci sia un movimento, non solo di registi, ma anche di istituzioni, che dialogano tra di loro. Una realtà decisamente eccentrica – e assolutamente positiva – rispetto a quel che succede nelle altre regioni italiane.
Thomas Bertacche: Sì, bisogna capire da dove parte tutto questo. Io mi sono convinto che parta da due cose. La prima è la presenza dei militari. Udine negli anni ’70 e ’80 era una delle città con più militari in assoluto, questo significava che aveva tantissimi cinema ed era quindi la dodicesima in Italia per biglietti venduti [mentre, come numero di abitanti, Udine è la 47esima città italiana, n.d.r.]. C’era una gran quantità di caserme per via del confine e poi si sa, le donne vanno molto al cinema e i militari vanno al cinema perché ci vanno le donne. E poi, l’altra ragione è la vicinanza col festival di Venezia che ha dato luogo alla nascita di una serie di circoli storici come la Cappella Underground che credo abbia 45 anni, il CEC che ne ha 41, Cinemazero che ne ha 35 e si tratta di realtà associative molto importanti. Ne è nata una rete che ha avuto la fortuna di lavorare in maniera coordinata e non competitiva. Poi c’è stata l’istituzione della Film Commission regionale e, infine, quella del Fondo Regionale per l’Audiovisivo che è stato l’ultimo tassello, arrivato grazie alla Legge Cinema che ha dato una decisiva spinta alla produzione e, grazie alla presenza dei festival, ha permesso di costruire progetti come Ties That Bind a Udine e East Meet West che si tiene durante il Trieste Film Festival. Tutto questo permette un sostrato interessante dove anche chi fa cinema può guadagnare in termini di conoscenza e di approfondimento. E poi c’è un caso eccezionale come quello di quest’anno, in cui quattro film friulani sono andati in quattro festival differenti e probabilmente non succederà mai più: Tir al Festival di Roma, Zoran il mio nipote scemo a Venezia, ma anche The Special Need a Locarno e Oltre il guado di Lorenzo Bianchini al Festival di Taormina. Sicuramente questo sistema di connessioni ha aiutato.
Torniamo a parlare dei sei film di Ozu che distribuirete prossimamente. Si tratta di Buongiorno, Viaggio a Tokyo, Tarda primavera, Fiori d’equinozio, Giorni sereni d’autunno e Il gusto del sake. Di recente, ci sono state delle iniziative importanti di distribuzione di film del passato, in primis il caso di To Be or Not To Be di Lubitsch portato nelle sale da Teodora e andato benissimo. Poi c’è stata l’iniziativa della Cineteca di Bologna che ha distribuito nelle sale una serie di film restaurati ogni primo lunedì e martedì del mese. Pensate di fare qualcosa del genere con i film di Ozu?
Thomas Bertacche: Non si può replicare quello che è successo con la Teodora. To Be or Not To Be è un film meraviglioso, divertente e per nulla faticoso da vedere e poi è stato messo sul mercato da uno dei distributori che cura al meglio il proprio prodotto, vale a dire Cesare Petrillo insieme a Vieri Razzini. Ma è stato un caso eccezionale. Inoltre, loro avevano la sicurezza di una sala a Milano che avrebbe tenuto il film, l’Anteo. Poi c’è stato un successo di enormi proporzioni e credo che neppure loro si aspettassero una cosa del genere. Quello che pensiamo di fare noi è proprio trovare una sala che sia interessata a prendere questi sei film, una sala con cui dialogare per costruire una programmazione ad hoc, vedere se farne uno alla settimana o due, o due giorni al mese. Credo che, invece, la Cineteca di Bologna forse non abbia fatto la scelta migliore distribuendo i film il lunedì e il martedì. Bisogna lasciare che sia l’esercente a decidere, è lui che conosce il proprio pubblico. Noi, per esempio, qui a Udine li abbiamo fatti solo il lunedì, scegliendo di puntare ad avere una sala piena per un giorno invece di una sala mezza vuota per due giorni. Su Ozu cercheremo di produrre quanto più materiale possibile, sia in video – tra interviste e altro – sia con delle pubblicazioni. Stiamo lavorando a un catalogo, sempre con Mark Schilling che sta traducendo alcuni scritti cinematografici di Ozu. Insomma, cercheremo di costruire un po’ di contesto intorno ai film.
In questi giorni abbiamo intervistato Diao Yinan, il regista dell’Orso d’Oro Black Coal, Thin Ice, che ci ha detto che dal 2017 sarà liberalizzata la distribuzione dei film in Cina. Ovviamente ne trarrà beneficio innanzitutto Hollywood, ma c’è secondo te uno spazio anche per il cinema italiano?
Thomas Bertacche: La Cina in cinque anni è diventata il secondo mercato al mondo. Quest’anno tra l’altro abbiamo avuto un sacco di problemi per via del cambio di potere che crea sempre un immobilismo burocratico, per cui è successo che abbiamo richiesto dei film, regolarmente usciti in sala, e non abbiamo ricevuto risposta semplicemente perché nessuno voleva prendersi la responsabilità di farli uscire dal paese. Non ho idea di cosa possa fare l’Italia, se il mercato cinese si apre. Se si apre forse è solo per gli americani, perché sono quelli i film che vogliono vedere. Noi non abbiamo più il cinema di genere, quindi non vedo cosa potremmo esportare. Eravamo una grande potenza cinematografica, lo siamo stati per tutti gli anni ’50, ’60 e ’70 quando c’erano le maestranze, ma oramai è tutto sparito. Produciamo solo film d’autore e quando è così devi avere la fortuna di avere un grande autore che fa un buon film. Oppure potremmo fare delle co-produzioni, ma io non credo molto in operazioni di questo genere, a meno che non si parli sempre di Matteo Ricci, la cui storia è bellissima per carità, ma noi e la Cina siamo due realtà diverse. Per esempio, parlavo con Johnnie To e gli ho chiesto di venire a fare un film in Italia, ma lui mi ha detto: “Io solo questa storia so raccontare, la mia. Se vengo in Italia, non conosco le persone, non so relazionarmi”. Comunque so che ci sono degli accordi di co-produzione in atto, c’è l’Anica che ha delle persone stabilmente a Pechino.
Ritornando alla programmazione del Far East 2014 si nota in primo piano, come dicevi tu, questo ritrovato orgoglio autarchico di Hong Kong, che ha prodotto film violenti ed espliciti anche dal punto di vista sessuale, volutamente non commerciabili per il mercato cinese. Cosa è successo secondo te? Forse i registi hongkonghesi si sono stancati di vedersi limitare dalla censura della Repubblica Popolare?
Thomas Bertacche: Questo è quello che diceva Fruit Chan nei giorni scorsi: non è che perché non puoi andare in Cina non fai più film a categoria 3, cioè non produci più film erotici solo perché non puoi esportarli in Cina. No, li fai lo stesso, e questo fa parte di un fenomeno mondiale che è quello del film locale. Ci sono dei film che possono andare in tutto il mondo e altri che sai che avranno un enorme successo ma in piccole realtà, come d’altronde accade in Italia, dove abbiamo il film pugliese, il film sardo o friulano. Del resto, a parte Hollywood, il cinema vive sempre di più con il mercato locale: il cinema italiano vive col mercato italiano, il cinema cinese col mercato cinese, ecc. Poi, qualche giorno fa, ho chiesto a Fruit Chan di straforo: “Ma scusa, dopo il tuo film, così nichilista [The Midnight After, n.d.r.], allora non c’è nessuna speranza per Hong Kong?” “No, non c’è nessuna speranza, diventeremo cinesi”, mi ha risposto. E dopo gli ho chiesto: ma allora forse loro miglioreranno? “No, non miglioreranno. È nel loro DNA”.