Intervista a Roy Andersson
Abbiamo intervistato Roy Andersson, regista svedese vincitore del Leone d’Oro a Venezia 71 con A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence.
E che venne alla donna del soldato?
Giunto al quinto lungometraggio di finzione, in una carriera che parte nel 1967, il regista svedese Roy Andersson chiude così la sua living trilogy e sbanca la Mostra di Venezia. Il film Leone d’oro 2014, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence è il terzo capitolo di una trilogia iniziata quattordici anni fa con Songs from the Second Floor e proseguita dopo sette anni con You, the Living. Andersson ora dichiara scherzosamente che il suo prossimo progetto sarà il quarto capitolo della trilogia. La filmografia del regista è ricca di cortometraggi e documentari, ma anche di spot pubblicitari. Questi ultimi, facilmente vedibili in rete, sono straordinari e rappresentano un concentrato della vena sarcastica e grottesca di Andersson. La vittoria veneziana, e l’annunciata distribuzione del film, contribuirà a far conoscere in Italia un regista pochissimo visto, a parte la personale che gli dedicò anni fa il Bergamo Film Meeting. Abbiamo incontrato Roy Andersson a Venezia, dopo la presentazione di A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence.
Nel film descrivi una società governata dal denaro, dove tutto passa attraverso transazioni economiche, eccezioni il pranzo del passeggero del battello morto e i baci nel segmento ambientato nel 1943. In questo contesto i due venditori di scherzi di carnevale non riescono a piazzare i loro prodotti e vivono una situazione di crisi economica. È la tua visione del mondo?
Roy Andersson: Sì, è una metafora, ma in un certo senso è corretta: dobbiamo cercare di sopravvivere vendendo e acquistando. La nostra società si basa sul commercio. Noi tutti siamo, in un modo o nell’altro, dei venditori. Questi personaggi sembrano non reagire a questa situazione di difficoltà, hanno un atteggiamento passivo. Qualcuno mi ha fatto notare che il mio film mostra una disperazione soppressa, perché i personaggi semplicemente accettano il loro destino e combattono nonostante la disperazione. Questo è un atteggiamento positivo. Io sono tendenzialmente ottimista. Penso che gli esseri umani abbiano il potenziale a cercare di vivere bene, abbiamo questa potenzialità. Credo che i miei personaggi siano a volte negativi perché vivono al di sotto di questo potenziale. A volte fa bene vedere un futuro negativo, è per questo che Goya dipinse le sue scene di “Los desastres de la guerra” come monito per il futuro. Quindi i miei film sono una specie di monito.
Sembra, da questo film, che le uniche due cose che contano nella vita, siano il danaro e la morte. Percepisco una visione nordica, estremamente cupa, pur virata al grottesco, che ti accomuna ad autori come Bergman, Strindberg, Ibsen, Noren. Inoltre il tuo cinema è una satira feroce di una società come quella svedese, ordinata, pulita, disciplinata e benestante che nasconde scheletri nell’armadio. Tuttavia i tuoi punti di riferimento dichiarati vengono da altre culture: Bruegel, Cervantes, Beckett. Fino a che punto il tuo cinema riflette la mentalità svedese?
Roy Andersson: Non voglio essere solo un regista locale. Onestamente molte espressioni artistiche sono locali, ma, proprio per questo, sono universali. È una contraddizione ma è vero, quindi la mia opinione è che noi esseri umani siamo molto simili. Una persona in Africa ha i miei stessi problemi: la ricerca della felicità, la tristezza, le malattie, e siamo anche simili agli animali.
Anche alle scimmie. Come hai realizzato la scimmia sottoposta a vivisezione?
Roy Andersson: È un robot. Uno molto costoso.
L’inizio del film, i tre incontri con la morte, sono una danza macabra, un gioco con la morte come quello degli scacchi de Il settimo sigillo.
Roy Andersson: Mi piace dire quanto la morte sarà banale, è come aprire una bottiglia di vino.
Per esorcizzarla?
Roy Andersson: Sì, per evitare la paura. E allo stesso tempo voglio sottolineare il pragmatismo della nostra società, per esempio nella scena del traghetto, dove c’è improvvisamente un problema, muore il cliente del bar che ha pagato ma non consumato il pasto, e la prima cosa che viene in mente è quella di cederlo, in modo che non vada perso.
Altro tuo punto di riferimento dichiarato è rappresentato da Laurel & Hardy. Tuttavia il tuo cinema è molto diverso dallo slapstick, perché è improntato sulla fissità, i tuoi personaggi sono caratterizzati da una forte lentezza. Perché quindi Laurel & Hardy?
Roy Andersson: Sono dei perdenti, fin dall’inizio, e di condizione sociale bassa, e sono sempre alla ricerca del balzo in avanti per raggiungere la middle class, e addirittura il loro sogno sarebbe la upper class, ma falliscono sempre in questi tentativi. Ho visto questi film da ragazzo, quando avevo sei, otto anni, e li trovavo estremamente tristi e divertenti, penso che siano fantastici.
Quindi sono loro ad aver dato un’impronta alla tua poetica? Volevi anche tu essere triste e divertente allo stesso tempo?
Roy Andersson: È qualcosa che non programmo, ma su cui lavoro a istinto, ma per me la felicità e la tristezza sono due lati di una medaglia, e quello che cerco è di mostrare le cose con chiarezza. C’è un sociologo francese, allievo di Pierre Bourdieu, che sia chiama Loïc Wacquant, che era stato guest professor negli Stati Uniti, per poi tornare a Parigi, e al suo ritorno diceva di avere avuto l’esperienza di un’ “aggressione” alla lucidità, al pensiero chiaro [clear thinking in inglese, n.d.r.]. Il mio lavoro è quello di favorire questo pensiero chiaro. Tutto è lì, evidente, messo in luce.
Nel film si vedono delle vetrine, quelle di un ristorante in un vicolo e quella del venditore di formaggi. Oltre a essere collegate al discorso sulla mercificazione di cui abbiamo parlato prima, mi sembra che combaci un generale effetto-vetrina del tuo cinema, che funzioni per quadri, con la composizione dell’immagine e la stabilità dell’inquadratura. C’è poi quella scena dell’artista che stacca i quadri e li mette uno di fianco all’altro.
Roy Andersson: Ho sempre uno sguardo diretto e frontale, non mi piace guardare le cose di profilo. C’è una cosa molto interessante che Matisse ha detto, che bisogna togliere dall’opera d’arte tutto ciò che non è strettamente necessario, per tenere solo ciò che è importante. Il mio stile consiste nel ripulire e concentrare sia l’immagine che i dialoghi. Il nucleo centrale del mio lavoro è il concetto di ‘stanza’, spazio personale nell’accezione svedese. Voglio recuperare la concezione di spazio e di ambiente, propri della pittura e della fotografia, al cinema.
Un momento davvero straordinario del film è quello con il re Carlo XII di Svezia nel bar. Come mai hai voluto rievocare questa figura storica?
Roy Andersson: Perché è il simbolo degli estremisti di destra, del machismo, perché non gli piacevano le donne ed è anche il simbolo dell’omofobia. Probabilmente era omosessuale, ma questo aspetto è stato per secoli inaccettabile in Svezia ed è stato nascosto. Carlo XII e le sue truppe tornano da Poltava dove hanno perso la battaglia. Il barista dice che sono stati a Poltava a da lì hanno portato a casa un velo da vedova. Questo viene da una poesia di Brecht, che dice «E che venne alla donna del soldato?». Parla di cosa ricevono le mogli dei soldati quando questi tornano dalla guerra, per esempio seta se il soldato è stato in Italia, profumi se è stato in Francia… Cosa ha ricevuto la moglie del soldato da Stalingrado? Il velo da vedova. È una bellissima poesia che ti apre gli occhi. Cosa ricevi dalla vita?
Alcune sequenze del film sono autonome, come quella del grande organo in rame dove vengono fatti arrostire i prigionieri africani. Un rigurgito del colonialismo che si collega all’incipit di World of Glory o alla bambina sacrificata di Songs from the Second Floor. Ci sono scene pensate per altri film?
Roy Andersson: A volte quando cucini avanzi qualcosa, ma lo puoi usare per il pasto successivo. Ho girato una sola scena durante il film per la quale non c’era il giusto spazio ora, quindi la userò la prossima volta. Ma ce ne sono anche altre che ho avanzato dai film precedenti.
In questo film vediamo almeno una piccola parte di una storia d’amore felice, quella della coppia sulla sabbia con il cane. Questo mi sembra un ritorno a al tuo primo film A Swedish Love Story.
Roy Andersson: Amo quella scena sulla spiaggia e il taglio che ha.
Altro momento straordinario è quello della canzone nel pub di Lotta Zoppa.
Roy Andersson: Quella è una vecchia melodia [“John Brown’s Body”, canzone simbolo del sentimento anti-schiavista nella Guerra di secessione americana, n.d.r.]. E il testo è un po’ meno vecchio della melodia. Io sono cresciuto a Göteborg, per cui questa canzone mi è molto famigliare, ma non quel bar, perché in realtà nessuno sa esattamente dove fosse quel bar, e probabilmente aveva anche cambiato luogo, per cui l’abbiamo costruito in studio dalla nostra immaginazione. E mi piacciono tanto le parole che lei canta così bene.
Come concepisci le scene dei tuoi film?
Roy Andersson: Per esempio quando vado in Germania, prendo un traghetto dalla Danimarca, molto simile al traghetto del film, e osservo i tipi umani a bordo. Non mi è ancora capitato di vedere nessuno che muore, ma il luogo e la situazione sono molto chiari nella mia mente. A volte ho temuto anch’io di morire nella nave.
Quindi alcune di queste scene si basano su quello che vedi attorno a te?
Roy Andersson: Sì, la vita è la mia fonte d’ispirazione principale, in combinazione con l’arte.