Intervista a Dario Argento
Profondo rosso, il montaggio subliminale, la brutalità, l’uso dei flashback, la colonna sonora, la creazione di un immaginario. Ne abbiamo parlato con Dario Argento durante il Torino Film Festival.
A Torino è stata presentato il restauro digitale di Profondo rosso, capolavoro insuperato di Dario Argento e punto di svolta per l’intera produzione thriller e horror mondiale. Il giorno successivo alla proiezione abbiamo avuto l’occasione di incontrare Argento all’Albergo Principi di Piemonte, per parlare del film e del suo cinema nel complesso.
Ieri è stato possibile godere della visione di Profondo rosso sul grande schermo, restaurato in digitale dalla Cineteca Nazionale insieme a RTI nel laboratorio de L’Immagine Ritrovata. Prima della proiezione hai detto di essere curioso della resa finale, dato che non avevi avuto modo di vedere la copia. Cosa ne pensi del risultato?
Dario Argento: Mi sembra davvero eccellente. Sono riusciti a recuperare perfino i colori originali, anche se il digitale non può riprodurre in maniera perfetta la resa della pellicola… La pellicola era fatta con la gelatina, con materiali organici, invece nel digitale tutto diventa una pura questione elettronica, quindi non riuscirà mai a ottenere gli stessi colori. Ma devo dire che la copia di ieri si avvicinava davvero molto all’originale.
Giustamente nella presentazione di ieri si è citato il ruolo svolto da Torino nella lavorazione del film, con l’utilizzo della Piazza del C.L.N. e di altri luoghi della città, ma Profondo rosso ricompone in realtà una città immaginaria, con sequenze girate a Perugia e a Roma. Perché hai scelto questo tipo di spaesamento geografico?
Dario Argento: Già nei film precedenti, per esempio ne Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio, avevo composto una città immaginaria, che esiste solo nella mia immaginazione, in cui ci sono una strada di Torino, una piazza milanese, e via discorrendo. Non mi ha mai interessato il realismo nel raccontare un luogo, una città; ciò che mi interessa è solo raccontare una storia. In Profondo rosso c’è una città che io ho immaginato, tutto qui.
Una città in cui svolge un ruolo dominante la metafisica, per non parlare del bar con i suoi rimandi hopperiani…
Dario Argento: Sì, con tutte le persone ferme, immobili…
Sì, i figuranti immobili.
Dario Argento: Nighthawks di Edward Hopper è un quadro iperrealista, e mi piaceva che questo tipo di pittura indicasse una strada anche per l’interpretazione estetica del film, che volevo a mia volta che rientrasse nei canoni dell’iperrealismo. Il quadro di Hopper mi permetteva di donare una possibile chiave di lettura allo spettatore senza risultare pedissequo o senza affidarmi a una spiegazione troppo retorica.
Rivedendo il film l’attenzione si è focalizzata per gli inserti da screwball comedy tra David Hammings e Daria Nicolodi. Non esiste passaggio tra loro e il resto del film, con la sua brutalità. Ad esempio nella sequenza del cimitero…
Dario Argento: Sì, quel piano sequenza al cimitero mi è sempre piaciuto molto. Il discorso sugli inserti più leggeri è giusto, perché ogni elemento del film è intessuto nel corpo della storia; sì, è vero, trovo che questo aspetto sia venuto abbastanza magicamente…
Ma era previsto così già in scrittura?
Dario Argento: Sì, certo, faceva parte della sceneggiatura di partenza.
Ci sono due sequenze, quella iniziale in cui Marc Daly parla ai suoi musicisti, e quella in teatro, quando viene rievocata la visione di Helga Ullmann, in cui la scena è tagliata mentre i personaggi stanno ancora parlando, andando a sfumare in maniera netta il dialogo. Come avevi lavorato su questo?
Dario Argento: Si è trattato in entrambi i casi di una scelta voluta fin dall’inizio. È un modo per ricordare al pubblico che il narratore, in ogni caso, sono sempre io: a un certo punto, quando ne ho voglia, mi allontano da ciò su cui sembro essere concentrato e me ne vado per raccontare altri aspetti della storia. È un modo di raccontare volutamente sgrammaticato, che credo funzioni piuttosto bene in Profondo rosso.
In un film come Profondo rosso il sonoro acquista in maniera inevitabile un ruolo di primaria importanza, sia per quel che concerne l’uso delle musiche che per l’audio in quanto tale. Che valore volevi dare alla tessitura sonora?
Dario Argento: Credo che Profondo rosso da questo punto di vista rappresenti un punto di svolta fondamentale, per la mia carriera; si tratta di una rottura netta sia rispetto alla prassi del genere che per quel che riguarda i miei film. In precedenza, per esempio, avevo lavorato con Ennio Morricone, che ha composto per L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio delle musiche splendide; ma per Profondo rosso mi interessava esplorare universi diversi, approfondendo dei temi legati al rock progressive, che dessero al film le tonalità musicali che mi sembravano più consone al tipo di racconto. Ho avuto la fortuna di imbattermi in un gruppo di giovani, praticamente debuttanti, e per istinto ho capito che sarebbero stati perfetti per il film.
Tornando al discorso sul montaggio, nel film c’è un utilizzo del flashback che è di totale rottura rispetto al genere. Il passaggio dal passato al presente è brutale, di una nettezza quasi scioccante. È come se il flashback fosse una sorte di ponte…
Dario Argento: Sì, perché attraverso il flashback lo spettatore viene portato in una zona franca, quasi al sicuro, come se tornando indietro nel tempo gli elementi potessero calmare la realtà, rilassarla. L’atmosfera sembra distendersi, e poi come una furia ritorna la realtà, che aggredisce il protagonista con furia, lasciando senza fiato lo spettatore.
Si può quasi affermare che Profondo rosso sia un film che anticipa l’avvento dell’home video, poiché porta lo spettatore a interagire attivamente con il film, riavvolgendolo nella memoria (e nel nastro) per tornare alla scena degli specchi e capire se e cosa si vede, uno dei temi portanti della tua poetica. Nei giorni scorsi, parlando con Giulio Questi, ci ha raccontato che il montaggio di Se sei vivo spara era stato pensato da lui e da Kim Arcalli con l’inserimento di immagini quasi subliminali. Hai voluto qualcosa di simile per Profondo rosso?
Dario Argento: Sì, il mio lavoro è abbastanza simile, volevo (e voglio) che le immagini possano arrivare allo spettatore anche se lui non ne è completamente cosciente. Cerco di dimostrare in questo modo quanto la verità sia qualcosa di fallace, perché ognuno in fin dei conti se la immagina come vuole, secondo la propria cultura, le proprie inclinazioni, il proprio immaginario. La realtà dunque sarà vista sempre in mille modi diversi dagli occhi di chi vi assiste. Volevo raccontare come la memoria potesse a volte metterti anche su delle false piste, suggerendoti soluzioni sbagliate.
E suggerendole anche alla memoria dello stesso spettatore…
Dario Argento: Certo! La memoria dei protagonisti, ma anche (anzi, ancor più) degli spettatori.
Profondo rosso segna una un punto di svolta anche nella messa in scena dell’omicidio, nell’estetica dell’atto dell’uccisione. In Profondo rosso quest’estetica della morte si lega a un contesto sociale instabile, in subbuglio, in lotta perenne.
Dario Argento: Nella messa in scena della brutalità e dell’omicidio risiedono mie memorie profonde, dei miei incubi ricorrenti, certi sogni. Penso si tratti di qualcosa di freudiano, che viene da lontano, che neanche io so sondare con precisione. Ovvio che questo si unisca anche a una serie di sensazioni che vivevo quotidianamente all’epoca in cui scrivevo il film. L’estetica dell’omicidio nel mio cinema è forte perché la elaboro in continuazione, incessantemente.
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