Intervista a Giulio Questi

Intervista a Giulio Questi

A poche ore dalla notizia della dolorosa scomparsa di Giulio Questi, pubblichiamo l’intervista fattagli durante il Festival di Torino, dove era omaggiato con una retrospettiva.

Non è mai facile affrontare un lutto cinematografico, soprattutto quando ha a che fare con figure mitiche, impossibili da riprodurre nei meccanismi usurati dell’industria. Ancor più doloroso è dover dare l’addio a fini intellettuali, in grado di riflettere sulla Settima Arte senza mai staccarne l’essenza dalla realtà, dal mondo che ci circonda, dall’universo in cui i film vengono alla luce. Non ci saremmo mai aspettati di dover trasformare la pubblicazione di un’intervista in un elogio funebre, eppure la scomparsa, solo poche ore fa, di Giulio Questi ci spinge proprio in questa direzione. Solo giovedì scorso avevamo avuto l’occasione di incontrarlo durante le giornate della trentaduesima edizione del Torino Film Festival, all’interno del quale era omaggiato con una doverosa retrospettiva: in forma smagliante, aveva risposto a ogni nostra domanda (all’intervista era presente, per Nocturno, anche Riccardo Fassone) con lucidità, ironia, modestia e dovizia di particolari.
Un uomo gentile e una mente preziosa, prima ancora che un regista geniale, a cui ci sembra doveroso a nostra volta porgere omaggio pubblicando quella che (forse, ma ha poca importanza) è stata la sua ultima intervista. Arrivederci Giulio Questi, e grazie di tutto.

Avendo l’occasione di rivedere tutti i suoi lavori, ci è parso evidente che al loro interno si muova un discorso profondo e articolato sulla storia italiana dalla Resistenza antifascista e antinazista fino al periodo della contestazione. In Se sei vivo spara c’è una metafora della Resistenza, ne La morte ha fatto l’uovo si parla della società del boom e dell’industrializzazione e in Arcana si arriva a un discorso sulla diseguaglianza sociale e sulla contestazione allo Stato.

Giulio Questi: Mah, non è stato un percorso programmato. Non è che pensassi di fare una trilogia sull’Italia, i film nascono per delle occasioni produttive. Sì, è chiaro che essendo una persona all’epoca giovane, immerso nella realtà culturale e sociale della vita di tutti i giorni, ero portato a inventare storie che avevano un contatto diretto con la mia quotidianità di letture di giornali, di conoscenze, di osservazioni politiche e sociale. Per cui non era certo programmato, anche se a posteriori si può dire “oddio, ma questo è un tracciato perfetto!”. Non è così, magari fosse veramente così; però ci si può avvicinare, ecco…

Qual è il percorso che la porta da Bergamo a Roma, per lavorare nel cinema?

Giulio Questi: Dovete capire che io sono arrivato a Roma nel 1950, vale a dire più di sessant’anni fa. L’Italia era distrutta, e c’era tutto da fare, tutto da costruire, e cominciò quel miracolo della ricostruzione del Paese. Un ragazzo di vent’anni che veniva dalla provincia e voleva fare il cinema, aveva tutto lo spazio a disposizione per farlo. Non è come oggi che non c’è nessuna fessura in cui un individuo si possa infiltrare; allora c’erano praterie aperte. Naturalmente occorre avere un minimo di talento… Io avevo la fortuna di avere già girato qualche documentario al nord per cui sapevo usare una Arriflex, montare la roba che giravo e soprattutto scrivere, perché avevo fondato una rivista politica culturale a Bergamo con gli amici, e addirittura pubblicavo racconti su Il Politecnico diretto da Elio Vittorini, che mi aveva chiesto dei racconti. A maggior ragione ho avuto le strade aperte prima per fare l’aiuto regista, quindi qualche documentario (vinsi anche un Nastro d’Argento in quel periodo), e poi via via il resto. Un resto che non è stato facile, per la natura dei film che proponevo. All’inizio sono stato chiamato per dirigere due episodi di film collettivi: il primo si chiamava Le italiane e l’amore, ed eravamo addirittura in undici, tutti ragazzi di allora diventati poi importanti, da Marco Ferreri a Florestano Vancini. Lì ho diretto un episodio piuttosto bello, che è stato notato. Quindi ho diretto un altro film a episodi, Amori pericolosi, composto da tre segmenti di tre registi, io, Carlo Lizzani e Alfredo Giannetti, un nome che forse oggi dirà poco ma allora era uno sceneggiatore molto conosciuto ed esordiva qui alla regia. Io fui chiamato, credo, come tappabuchi, e vi spiego perché: i tre episodi dovevano essere ispirati al Grand Guignol, che significa tutto e niente, più o meno crudeli. Il racconto che avrei dovuto scrivere e dirigere aveva come attrice imposta Graziella Granata, che era amica del produttore e distributore Rizzoli. Una giovane attrice che faceva teatro. Avevano offerto l’episodio a un regista francese di cui non ricordo il nome ma di una certa fama che, di fronte a questa imposizione, si era tirato indietro. Si sono rivolti a me pensando “quello comincia ora la carriera, non può dire di no se vuole lavorare”: e infatti ho detto subito di sì! Non mi sono neanche pentito perché la Granata ne Il passo si è dimostrata un’attrice brava. Fino a quel momento lavorare non è stato difficile, perché si trattava di offerte che mi venivano incontro, e che dovevo solo accettare. Quando poi ho iniziato a volere proporre i film miei ho trovato delle difficoltà. Non certo per Se sei vivo spara, a dire il vero… Perché ho fatto un western? Non mi sarei mai sognato di dirigere un western, anche se ovviamente mi piacevano i western americani, ma in quel periodo si produceva solo quello in Italia. Io stavo scrivendo altre cose, ma tutti volevano i western perché la distribuzione volava, vendevano all’estero, c’era un boom. Venne da me un produttore, tra l’altro un tipo pieno di debiti, che era disperato: io stavo lavorando insieme a Franco Arcalli, mio amico, socio e montatore, suonano alla porta ed entra Alessandro Iacovoni che ci chiede cosa stessimo facendo. Noi gli spieghiamo che stavamo scrivendo una cosa interessante, “un film sull’erotismo e sui polli”… Era La morte ha fatto l’uovo, che stavamo abbozzando. “No, no, mettete tutto da parte. Ho bisogno di un western! Ho appena firmato un contratto per tre western con i distributori e non ho niente in mano. Stasera mi dovete scrivere due pagine qualsiasi”. Io e Kim ci siamo guardati e ci siamo messi a ridere. Abbiamo messo da parte quello che stavamo scrivendo e abbiamo buttato giù una paginetta che ho portato a Iacovoni in un bar. Lui l’ha preso di corsa e così è nato Se sei vivo spara. Iacovoni era un produttore in difficoltà, che sapeva però tenere bene i rapporti ma non aveva una lira. Tra i suoi soci il più importante era un padrone di macellerie e aveva soldi da investire. Si era innamorato di un’attrice, e come spesso capitava nel cinema di allora aveva deciso di investire i soldi per produrre un film per lei. I soldi c’erano, ma erano pochini, e la distribuzione non era una major italiana importante, ma un consorzio di distributori regionali. Io però mi sono buttato, basandomi sulla sceneggiatura che avevo scritto insieme ad Arcalli: venivamo tutti e due dalla Resistenza, e quindi anche senza volerlo nelle scene di violenza che di solito ci sono nei western avevamo inserito la memoria di ciò che conoscevamo. Il film l’abbiamo girato in Spagna, con un’equipe spagnola, perché il produttore italiano ci ha portato a Madrid e poi è scomparso, e aveva appaltato tutto a un produttore esecutivo tedesco, un piccoletto piuttosto bruttino che amava molto le donne. Anche lui, dopo un paio di giorni, è scomparso e ha lasciato tutto nelle mani di un direttore di produzione taccagno, con pochi soldi. Il nostro villaggio western, per esempio, non era in Almeria come tutti i grandi spaghetti western: noi eravamo alle porte di Madrid, su una sierra di cui non ricordo il nome. Nella troupe l’unico italiano, a parte me, era l’operatore Franco Delli Colli, cugino di Tonino ma bravissimo a sua volta. Uno dei problemi era legato al deserto, perché come ogni western che si rispetti anche il mio prevedeva molte scene nel deserto. Io pensavo che almeno per quello saremmo andati in Almeria ma no, non c’erano i soldi. Disperato ho iniziato a girare tutte le montagne lì vicino, ma non tornavano i conti. Tornando da questi convulsi sopralluoghi per strade polverose, alla periferia di Madrid dico all’autista di fermarsi e vedo delle collinette completamente nude. Erano tre colline che le ruspe avevano ripulito dalla vegetazione perché lì doveva sorgere un quartiere residenziale. Se stavi sulla collina vedevi la città, ma restando sul fondo delle colline e guardavi verso l’alto era tutto perfetto, un deserto mai visto, completamente bianco e non rossiccio come quello dell’Almeria. Magnifico. L’abbiamo fatto lì. Il materiale girato, che partiva per Roma per lo sviluppo, era così bello che una notte mentre dormivo ricevo la telefonata di Sergio Corbucci che io conoscevo relativamente, che mi chiede dove avessi trovato un deserto così bello. “Sai, un cantiere”… Da quel momento non ne ha più parlato, ha messo giù. Il film poi è stato completato a Roma e quando è uscito è andato anche bene, ma i distributori si sono comunque messi le mani nei capelli perché era qualcosa di diverso da qualsiasi western, mancavano le icone classiche. All’estero si sono tutti innamorati di questo film, l’hanno comprato dal Giappone alla Germania. Quando è uscito pare che siano svenute un paio di persone in sala, e non me ne capacitavo perché nel western si era visto di tutto e di più. Arrivò anche un ordine della questura per bloccare il film e ho dovuto tagliare un paio di scene. Se si parla ancora di questo film dopo così tanti anni è perché si tratta di un film bastardo, strano, che ognuno interpreta a modo suo. Per alcuni è un film sulla Resistenza, per altri un film sulla borghesia corrotta che fa fuori i banditi pur essendo più banditi di loro. Poi ci sono perfino gli omosessuali, raccontata solo dalle divise nere e dalle concupiscenze verso un ragazzo, ma per tutte queste voci in molti continuano a parlare del film. E non ne posso più! [ride, NdA]

Un paio di domande sulla Resistenza: è vero che avesse in mente di trarre un film dagli scritti di Fenoglio? E poi, sul suo cortometraggio Visitors (2007): perché adesso ha sentito la necessità di parlare dei nemici che ha ucciso?

Giulio Questi: Partiamo da Fenoglio. Io avevo un contratto con Cristaldi, per un film da stabilire, e io non avevo progetti miei e mi stavo arrovellando perché volevo dargli qualcosa che potesse andar bene per il tipo di cinema che produceva. Un giorno mi chiama e mi chiede se avessi letto i libri di Fenoglio, che io conoscevo molto bene. “Perché non ti butti su una di quelle storie?”. Io, che avevo tutte le mie storie partigiane ero un po’ dubbioso, perché ero, come dire, egoista con la mia memoria; erano ricordi che avevo così dentro di me che scrivendo non sentivo di rovinarne la memoria, ma temevo di svilirli con il cinema, che bene o male diventa una realtà finta. Ma Fenoglio mi piaceva così tanto che partii per Alba e lo incontrai. Lui aveva fatto la guerra in Giustizia e Libertà, e anche la mia brigata era una Gielle, quindi abbiamo parlato a lungo di cosa si sarebbe potuto fare. Lui mi dice “Io sto scrivendo una storia che secondo me potrebbe andare bene, ma devo ancora finire il libro”; ha preso la penna e lì sul tavolo mi ha descritto quello che poi sarebbe diventato Una questione privata. Mi lasciò questa scaletta e io ci ragionai sopra, esaltandomi anche perché il plot era davvero bello; ho cominciato a lavorare sul progetto, mentre lui andava avanti a scrivere il libro. Dopo qualche tempo, durante il quale ci siamo scambiati qualche telefonata e un paio di lettere, vengo a sapere dai familiari della sua malattia. Alla sua morte, poco dopo, il progetto è caduto nel nulla. Tutto sommato sono contento di non averlo fatto, perché sentivo una forzatura dentro di me: non era roba mia, quell’universo di piccoli borghesi di provincia era troppo lontano da me e infatti stavo cambiando i personaggi trasformandoli in poveri contadini.

E per Visitors?

Giulio Questi: Durante gli anni ho sempre portato avanti la storia che ho vissuto in montagna con i miei compagni. Una vita vissuta sul terreno, tra ignoranti di politica ma appassionati a difendere una libertà che doveva essere conquistata. Quando ho scoperto la macchina digitale ho gridato al miracolo. Non esisteva ancora l’alta definizione, perché era una quindicina di anni fa, ma era una macchina molto buona. Quando l’ho comprata mi sono pentito subito perché mi son detto “che cazzone, e ora che faccio? Le vacanze d’estate?”, e l’ho messa via. Dopo una ventina di giorni l’ho ritirata fuori, l’ho accesa e mi sono innamorato. Ho una casa con molta luce e ho pensato di poter fare dei racconti come quelli che scrivevo, ma con l’immagine. Ogni ripresa era una scoperta, e mi sono entusiasmato. E ho fatto tutto da me, inventando la Solipso Film e girando storie che chi guardava apprezzava molto, perché rispetto alla roba di oggi dove il filmaker realizza materiale di alta perfezione tecnica ciò che giravo io era volutamente amatoriale. Immaginavo che la mia scrivania fosse allargata a tutta la casa e che la penna si trasformasse in videocamera. Tra gli amici che hanno visto questi film c’era anche un distributore di dvd, Angelo Draicchio, che ha deciso di farne un cofanetto con sette cortometraggi. Visitors era un debito, un tassello che mi mancava: non ero mai riuscito a parlare bene delle persone morte ammazzate durante la lotta partigiana, e questa era l’occasione per raccontare questo rapporto.

E invece, Arcana? Durante la presentazione in sala lei ha detto una cosa interessante sul film, definendolo “etnografico”.

Giulio Questi: Arcana è nato durante le grandi migrazioni delle famiglie verso il nord. Ero un lettore dei libri di De Martino sul sud, e tirai giù un soggetto neanche troppo complicato: una donna che veniva dal meridione, vedova con un figlio e il marito morto durante i lavori per la costruzione della metropolitana della città in cui si sono trasferiti, cercava di vendere la sua cultura agli altri improvvisandosi lettrice di carte e di cose magiche. Descrivevo un rapporto madre/figlio molto primordiale, dalla forza quasi magica. Secondo me le cose più interessanti del film riguardano le scene relative ai lavori della metropolitana, con le gallerie, gli operai che lavorano nel buio, i viaggiatori prigionieri nei vagoni che battono sui vetri con le mani. Ma il film era comunque strutturato secondo gli stilemi del film di genere: infatti è finito nei bollettini commerciali come film horror, che ben poco c’entra. Però è una fortuna, perché appartenendo a un genere riconoscibile, finisce che ogni tanto viene tirato fuori perché i generi non passano mai di moda, sono il cartellino per poter individuare subito un tipo di storia.

Parlando della totale riscrittura del linguaggio cinematografico nei suoi film, ci piacerebbe che ci parlasse sia del montaggio (e quindi del suo rapporto con Kim Arcalli), sia delle musiche, visto che ha avuto modo di lavorare con Ivan Vandor, Bruno Maderna e Romolo Grano.

Giulio Questi: Il particolare montaggio che avevamo escogitato io e Kim, e che addirittura era presente in sceneggiatura, veniva da una leggenda metropolitana che ci appassionava, l’uso subliminale delle immagini. All’epoca si favoleggiava molto sul fatto che la pubblicità usasse infilare frammenti di immagine che restavano nel subconscio. Noi ci scherzavamo su questo, ma in realtà un po’ provavamo anche a restituirlo, e quindi sia in Se sei vivo spara che ne La morte ha fatto l’uovo lavoravamo il fotogramma inserendo frammenti. La pubblicità nasce e cresce sul pop, e quindi si adattava benissimo a un film come La morte ha fatto l’uovo. Volevamo sperimentare. Ne La morte ha fatto l’uovo c’è un incidente stradale lavorato tutto per frammenti di fotogrammi, che Franco Arcalli portava a termine grazie alla sua vocazione quasi artigianale. All’epoca si lavorava con l’acetone per incollare le inquadrature, non è come il digitale: bisognava andare a tagliare il fotogramma, incollarlo… Un lavoraccio. Per la colonna sonora, invece, il discorso è diverso perché i film non sono nati sulla musica. Mi sono rivolto a Ivan Vandor perché era un amico più giovane che conoscevo e sapevo che era molto bravo, tanto che l’avevo già utilizzato ne Il passo. Quando ho girato La morte ha fatto l’uovo non l’ho richiamato perché ho avuto l’occasione di lavorare con Maderna, che era un genio ed era più pop di noi. Sapeva fare musica con qualsiasi strumento, fece anche il rumore di lamiere da inserire nel film. Ha inventato un’inesistente lingua caraibica! Era un grande inventore. Siccome il film era tutta un’invenzione di questo tipo la sua musica era perfetta. Per Arcana ho scelto invece un musicista amico, che conoscevo e avevo bisogno di una musica che desse un carattere popolare al film. Tutto qui.

Info:
La pagina del Torino Film Festival dedicata alla scomparsa di Giulio Questi

Articoli correlati

  • Torino 2014

    Arcana

    di Uno dei film maledetti del cinema italiano, l’ultimo della coppia Jules e Kim, che ebbe problemi di distribuzione e di censura. Mai editato per l’homevideo, il film è stato presentato al Torino Film Festival, per l’omaggio a Giulio Questi, in una pellicola ‘uncut’.
  • Torino 2014

    La morte ha fatto l’uovo

    di Thriller ipnotico, surreale e teorico, La morte ha fatto l'uovo (1968) è forse il massimo esempio nella storia del cinema italiano di come un film di genere possa diventare allo stesso tempo un saggio inestimabile di sperimentazione. Al Festival di Torino per l'omaggio a Giulio Questi, scomparso lo scorso 3 dicembre.
  • Festival

    Torino Film Festival 2014Torino 2014 – Minuto per minuto

    Eccoci nuovamente all'ombra della Mole per il Torino Film Festival 2014, all'inseguimento di opere prime (seconde e terze), documentari italiani e internazionali, retrospettive, omaggi, (ri)scoperte...
  • Festival

    Torino 2014

    Il Torino Film Festival 2014, dal 21 al 29 novembre. La trentaduesima edizione del festival sabaudo, tra esordi, New Hollywood, documentari e film di ricerca. Tutte le nostre recensioni.

1 Comment

  1. Trackback: Una questione privata | Cinema e Teatro Gabbiano di Senigallia

Leave a comment