Internat

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Come poter conservare la memoria collettiva quando si è persa la terra natia: Internat di Maurilio Mangano affronta questo tema enorme, non senza qualche difficoltà, seguendo i georgiani sradicati dalla regione dell’Abcasia, dichiaratasi territorio indipendente. Presentato alla 26esima edizione del Trieste Film Festival.

Questa terra non è più mia

In un’ex scuola occupata, le famiglie di profughi georgiani scampate alla guerra d’Abcasia vivono nella nostalgia di un passato eletto a presente e futuro. Una riflessione sulla perdita forzata dei luoghi d’origine, la paura di dimenticare le proprie radici e il mito del ritorno a una Terra Promessa. [sinossi]

Selezionato per il concorso documentari alla 26esima edizione del Trieste Film Festival, Internat di Maurilio Mangano è un film che indaga una realtà quasi completamente dimenticata: quella della pulizia etnica del popolo georgiano cacciato nel corso degli anni Novanta dalla regione dell’Abcasia, autoproclamatasi indipendente con l’appoggio della Russia. Rifugiata in quel che resta del territorio della Georgia da almeno vent’anni, buona parte di questi profughi ancora non ha trovato una casa e, perlopiù viene alloggiata in ex scuole o ex ospedali. Mangano si concentra su un gruppo di queste persone, legate tra di loro dalla parentela, dall’identica origine e dalla comune lotta passata, oltre che dalla necessità di dover condividere un identico spazio lontani dalle loro case di un tempo.

Costruito per mini-capitoli, in cui di volta in volta ci si concentra ora su uno ora su un altro dei protagonisti, Internat si interroga in particolare sulla possibilità (e sulla necessità) di poter rievocare il passato, la memoria condivisa, anche e soprattutto in assenza del proprio Heimat, della terra natia. In tal senso, acquisiscono particolare valore le sequenze corali in cui, spesso a tavola, si ripercorrono episodi di guerra e si rimpiangono i morti. Attraverso il procedimento della continua e reiterata verbalizzazione si cerca così di cristallizzare un ricordo e allo stesso tempo si finisce inevitabilmente per idealizzare il tempo perduto. In questo processo di riappropriazione collettiva, allora, acquistano un senso particolare le canzoni che vengono cantate oppure i racconti fatti da un adulto a un bambino che, nato già in condizione di profugo, non può sapere quale fosse la vita un tempo.

Operazione decisamente meritoria, proprio perché volta a svelare e ad indagare una realtà così poco familiare all’occhio disattento dello spettatore occidentale, Internat fatica però a fare chiarezza nei passaggi intermedi del suo racconto, sia perché incentrato su un numero eccessivo di personaggi (la cui essenza, per il discorso che si vuole fare, risiede proprio nella coralità degli intenti più che nella singolarità delle loro vite), sia perché a volte si finisce per perdere il filo nel seguire aspetti della loro vita quotidiana di per sé poco utili al fine complessivo.
E, se le registrazioni del passato – in cui si assiste all’esodo della popolazione – appaiono indispensabili e bellissime per quella loro natura già “disfatta” e deteriorata (proprio come un oggetto prezioso che si sbriciola e si auto-distrugge nel momento in cui lo si tocca e lo si guarda), non altrettanto si può dire del complessivo sguardo registico che appare troppo aderente e troppo pervaso dalla realtà che racconta. Mangano, che di recente abbiamo intervistato per il suo ruolo di casting director, forse si dimostra troppo accondiscendente nei confronti dei suoi protagonisti, i quali sembrano dotati di una bontà innata senza il minimo chiaroscuro, senza alcuna opacità. E questo accade probabilmente perché, in base alla costruzione narrativa, a volte si è più portati a seguire i destini dei singoli che la loro dimensione collettiva. E così è solo nell’ultima parte, quando tutti quanti si riuniscono in una casa in campagna vicina al confine con la neonata e amata-odiata Abcasia, che il film acquista davvero una dimensione elegiaca e poetica, laddove anche i gesti quotidiani si avvalgono di un ulteriore significato simbolico, quello dell’illusione di ritrovarsi a vivere allo stesso modo di un tempo, con gli stessi riti e negli stessi ambienti.

Ciò detto, Internat è comunque un preziosissimo contributo che deve entrare a far parte a pieno titolo di quella ormai ampia costellazione di film dedicati alle mille irrisolte questioni relative al disgregamento dell’Europa dell’Est. E forse un giorno qualcuno dovrà riflettere sui motivi per cui il crollo del Muro di Berlino ha di fatto favorito solo Berlino, vale a dire la Germania, mentre ha finito per disgregare, balcanizzare e rendere più debole tutto il resto del blocco ex-sovietico.

Info
La scheda di Internat sul sul sito del Trieste Film Festival.
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