Se Dio vuole

Se Dio vuole

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L’esordiente Edoardo Falcone dirige con Se Dio vuole una commedia che si regge sugli stereotipi e le macchiette che hanno caratterizzato il genere (e il suo rapporto con la realtà italiana) da almeno 15 anni a questa parte; con soltanto un piccolo, e tardivo, sussulto nei minuti finali.

Auguri e figli… preti

Quella di Tommaso è una famiglia borghese come tante: lui, cardiochirurgo stimato quanto scontroso, lei ex contestatrice, ora casalinga con qualche rimpianto, la figlia Bianca fatua fidanzata di un agente immobiliare, il figlio Andrea brillante studente di medicina, predestinato a seguire le orme paterne. Osservando Andrea, tuttavia, Tommaso intuisce che il ragazzo nasconde un segreto: preparato a un coming out di natura sessuale, l’uomo apprende invece, con sorpresa, che suo figlio ha intenzione di entrare in seminario e diventare prete… [sinossi]

Se lo stato dell’arte della commedia italiana, nel 2015, non offre certo un panorama esaltante, fermo com’è ad un’aurea mediocritas (rinnovata di film in film) che riporta puntualmente al cinema pubblico, incassi, ma anche tematiche e motivi stagnanti, è pur vero che l’esordio di un nuovo cineasta non può che incuriosire. Mettiamoci pure che Marco Giallini è interprete simpatico e valido, che Alessandro Gassmann, quando ben sfruttato, è capace di fare il suo, che il soggetto di questo Se Dio vuole (in termini molto generali) poteva persino offrire qualche spunto di interesse.
Insomma, di motivi per guardare all’esordio dietro la macchina da presa di Edoardo Falcone con gli occhi scevri da pregiudizi, tutto sommato, ce n’erano a sufficienza; in più, il regista esordiente ha dichiarato di volersi rifare alla stagione della commedia all’italiana, proposito accarezzato da molti ma tradotto in risultati di una qualche rilevanza da pochissimi. Guardando il film di Falcone, tuttavia, si finisce per rimpiangere non solo Risi, Monicelli e Scola (e questo è un fatto in fondo normalissimo, e non certo nuovo) ma anche i loro vari e sempre più scoloriti epigoni dei decenni successivi, e persino i bozzetti macchiettistici e insipidi dei Veronesi e dei Pieraccioni.
Sconforta un po’ appurare come un genere in cui un tempo il nostro cinema sapeva esprimere un’identità forte (e non è campanilismo; o forse un po’ sì) sia ridotto alla maniera della maniera, capace ormai di parlare solo per stereotipi, con un legame sempre più flebile con la realtà che vorrebbero rappresentare. Stereotipi reiterati con tale costanza e regolarità che, forse, sarebbe la loro assenza a costituire, presso pubblico e critica, ragione di scandalo.

L’idea iniziale, lo ribadiamo, non era in sé da buttare: un coming out spirituale in un’epoca di (finta) apertura verso il suo corrispondente sessuale, sullo sfondo di una società (dai genitori agli insegnanti) tanto ansiosa di dimostrare la propria “apertura” e modernità, quanto di fatto ferma a schemi mentali e paure di qualche decennio fa. Di fatto, la versione aggiornata, malgrado tutto, del vecchio detto “meglio un figlio gay che…”; con la categoria del prete a sostituire quelle di volta in volta scelte come paradigma di massima disgrazia.
Il problema è che Falcone e il co-sceneggiatore Marco Martani immergono il tutto in un macchiettistico e plasticoso ritratto di vita borghese, in cui i motivi stereotipanti del genere sono tutti prontamente abbracciati, e ribaditi: dal superattico nel quartiere romano di Prati, con immancabile vista su Castel Sant’Angelo, ai genitori ex contestatori divenuti borghesi, con l’immancabile senso di colpa, dalla figlia apparentemente superficiale e fatua, che però si rivela infine l’unica persona vera e coerente (con tanto di sdoganamento artistico di Gigi D’Alessio, e la discutibile affermazione che “far ascoltare De André a una bambina di sette anni è crudeltà”) all’immancabile padre tanto apparentemente moderno, quanto nei fatti distratto e presuntuoso.

A questi ormai sclerotizzati motivi, i cui portatori si impegnano in gag che smettono di far sorridere già dopo pochi minuti di visione, il film ne aggiunge un altro, che investe da vicino il suo tema: quello del prete “moderno” e anticonformista, capace col suo carisma di coinvolgere e stregare i giovani. Non è un caso che Gassmann, in una scena, indossi una maglietta con una foto di Karol Wojtyla: proprio il pontefice che, tra gli ultimi, ha meglio incarnato quella mistura di comunicatività “giovane”, e intransigenza di fatto, che il personaggio sembra voler ribadire.
Insomma, per fare il prete “rivoluzionario”, sembra dirci il Don Pietro di Gassmann, basta parlare in dialetto, dire qualche parolaccia, essere fisicamente piacevoli e dinamici, gesticolare parecchio; stando attenti però a non dire mezza parola sui temi caldi che da sempre caratterizzano il dibattito tra chiesa e società, insomma su gay, divorziati, contraccezione, aborto, ecc. Perché mettere il dito nella piaga e rovinare la bella immagine di un sacerdote moderno, in fondo? Meglio portare avanti, piuttosto, il tema del suo passato criminale e della sua redenzione, meglio far credere all’ateo mangiapreti di turno, per metà film, che quel prete forse è ancora coinvolto in qualcosa di losco. Lo spettatore ride non tanto della dabbenaggine del personaggio di Giallini, in fondo, ma soprattutto del modo in cui questo è stato scritto.

Al lettore verrà spontaneo, a questo punto, chiedersi se in questo Se Dio vuole ci sia qualcosa da salvare, qualche elemento di interesse che faccia distaccare il film, magari senza volerlo, dall’aurea mediocritas di cui sopra. Ebbene, sorprendentemente la risposta è affermativa: e non parliamo tanto dell’efficacia (malgrado tutto) della prova del protagonista, che approccia il personaggio con un piglio a metà tra il suo omologo della serie TV Romanzo Criminale e un pistolero da spaghetti western, o della gradevole colonna sonora di Carlo Virzì, o più in generale di una confezione che evita al film, se non altro, le scivolate nel trash di tanti prodotti analoghi.
Ci riferiamo, piuttosto, agli ultimi minuti di pellicola; in cui lo script fa irrompere, a sorpresa, l’elemento tragico nell’intreccio, e chiude la vicenda con una soluzione di cui, malgrado tutti i limiti che il film è riuscito a esprimere fino a quel momento, bisogna riconoscere l’intelligenza. Uno sviluppo che va a investire davvero (tardi) i temi che la trama finge di voler trattare per tutto il resto del suo sviluppo (il rapporto – laico – con la spiritualità, lo smarrimento di fronte al vuoto e alla perdita) e che stupisce per il contrasto di tono, abbastanza stridente, col resto della pellicola. Un piccolo sussulto, in un prodotto per il resto piatto e privo di motivi di interesse, che arriva tardi per salvare il film; limitandosi a fargli guadagnare, nell’opinione e nel voto di chi scrive, un mezzo punto in più. Ancora troppo poco, decisamente.

Info
Il trailer di Se Dio vuole su Youtube.
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