Ameluk

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Con Ameluk, l’esordiente Mimmo Mancini cerca di dirigere uno spaccato sociale sull’integrazione, in un piccolo paesino pugliese, in forma di commedia: ma il risultato è rozzo e appesantito da una comicità di grana grossa.

Il Cristo della discordia

Siamo a Mariotto, paesino pugliese: durante il Venerdì Santo, fervono i preparativi per la tradizionale Via Crucis. Quando l’interprete designato per il ruolo di Cristo si ferisce, il parroco decide all’ultimo momento di sostituirlo con Jusef, il tecnico delle luci; questi, tuttavia, è un immigrato di religione musulmana. La scelta fa discutere, e il paese si spacca: la decisione del parroco fa infuriare in particolare un razzista politico locale, che sta preparando la sua candidatura a sindaco… [sinossi]

La locandina di Ameluk, lungometraggio d’esordio di Mimmo Mancini (già attore – teatrale, televisivo e cinematografico – e regista di corti) recita “tratto da una storia che potrebbe essere vera”. Un lancio che tende senz’altro a incuriosire, per questa piccola commedia, dal sapore tipicamente locale, tutta calata in una realtà pugliese teoricamente ben conosciuta dal regista; una frase che tuttavia, dopo la visione del film, necessiterebbe forse di qualche distinguo.
Se infatti lo spunto di partenza del film (un Cristo immigrato, di religione musulmana, che prende il posto di uno italiano nella processione del paese, con la piccola comunità che si spacca per l’evento) è senz’altro verosimile, lo è molto meno il modo in cui questo viene sviluppato: tanto la sceneggiatura del film tende fin dall’inizio a virare al grottesco, all’esasperazione parossistica e allo stereotipo personaggi, dialoghi e situazioni. Un’esasperazione che, ricercando dichiaratamente la risata facile e la comicità di grana grossa, annulla fin dall’inizio qualsiasi velleità vagamente sociologica del film: dell’impatto del Cristo musulmano sul paesino di Mariotto, e della faida che questo provoca, si dovrebbe (teoricamente) ridere; ma, pur nella fabula del film, non si arriva a crederci neanche per un attimo. E questo ci porta alla seconda considerazione che viene spontanea dopo la visione del film, strettamente collegata alla precedente: se è vero che le intenzioni dell’autore erano teoricamente buone (e, anche qui, andrebbero fatti diversi distinguo) il risultato è stato peggiore del male da stigmatizzare.

Spieghiamo meglio le cause di un giudizio tanto severo. Dei tanti toni che si potevano scegliere per raccontare questa storia di (dis)integrazione, Mancini sceglie quello più facile: quello che lo porta, nei fatti, a sposare la rozzezza e il qualunquismo incarnati dal candidato sindaco (da lui stesso interpretato) ripagando quest’ultimo con la sua stessa moneta.
Il ritratto della vita di provincia, dei suoi rituali e delle sue piccole e grandi miserie, è talmente grossolano e macchiettistico, infarcito dei più vieti stereotipi, da risultare del tutto nullo nel suo potenziale di spaccato sociale: tutti, dai familiari del protagonista, alla rozza famiglia di sua moglie, fino al saggio professore ebreo e ai viscidi collaboratori del politico, fanno esattamente ciò che i loro preordinati ruoli impongono; e lo fanno nel modo più prevedibile, buttando le potenzialità del soggetto in farsa, prefigurando col loro comportamento un “volemose bene” sostanziale che nei fatti, alla fine del film, arriva.
Lo stesso protagonista, che un momento prima era deciso a fuggire e ad abbandonare a se stessa una comunità retrograda e ottusa, decide nel giro di pochi minuti che quest’ultima può essere salvata; e decide di immolarsi su un altare diverso da quello del suo tanto discusso ruolo nella processione, quello della (detestata) politica. Il vecchio “vota Antonio”, coretto in salsa multietnica, evidentemente funziona ancora.
A convincere il riottoso Ameluk basta il proselitismo di un’altra macchietta inverosimile: lo stagionato militante da centro sociale, capelli lunghi, kefiah al collo e slogan post-settantasettini. Militante che però accetta il gioco della politica, decide di entrarci, e oltretutto tappezza le pareti della sua sede di poster di Gandhi e del Dalai Lama: viene da chiedersi, a questo proposito, se Mancini sia mai entrato in un centro sociale, o se abbia mai parlato con qualcuno dei suoi occupanti.

Il film affastella così sketch e situazioni caricaturali una dopo l’altra, puntellandole di un umorismo dal sapore locale, buttato nella storia senza misura né criterio, in modo talmente esasperato e reiterato da venire presto a noia. Il tutto è, inoltre, appesantito dalla gestione incerta, che si somma al generale approccio macchiettistico, di alcuni personaggi (su tutti, la moglie del protagonista, forse quella dal modo di fare più inverosimile, oltre che incomprensibile) e da una fotografia inspiegabilmente virata a tonalità giallo ocra: Mancini ha dichiarato di aver voluto conferire al film un look pastello, che lo avvicinasse a un fumetto. Chi scrive, tuttavia, si è trovato più volte a domandarsi se per caso non ci fosse qualche problema tecnico nella proiezione, tanto la resa della fotografia sembra frutto di trascuratezza, più che di scelte deliberate.
Questo Ameluk, così, quali che fossero le intenzioni del suo autore, finisce per affondare in una totale mancanza di incisività, in una comicità che genera presto noia più che divertimento, in una trascuratezza di realizzazione che non può essere, in alcun modo, scusata dal basso budget. Non basta il carattere indipendente del film (che ha comunque beneficiato di cospicui finanziamenti pubblici) o le sue velleità di prodotto pedagogico, a farci emettere un giudizio che prescinda dalla sua (ben povera) qualità.

Info:
Il trailer di Ameluk su Youtube
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