I bambini sanno

I bambini sanno

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Possiede una propria poetica perfettamente riconoscibile il cinema di Walter Veltroni, come dimostra I bambini sanno. Peccato che sia il dominio della retorica, del perbenismo, di quella politica centrista con vaghi accenni di socialdemocrazia su cui si è fondato il Partito Democratico.

Youth without youth

“I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stufano di spiegargli tutto ogni volta”. Saint Exupéry sapeva la verità sulla vita e conosceva le vie, segrete e tenui, per parlare al cuore, alla fantasia, al cervello dei bambini. Negli anni sessanta, camminando per le strade del nostro paese, si poteva trovare un bambino, da zero ai quattordici anni, ogni quattro abitanti. Oggi ce n’è uno ogni otto, la metà. Un paese in cui spariscono i bambini è un paese senza fiducia, senza voglia di futuro, più conservatore. E’ anche un paese con meno fantasia. E con meno poesia. Con meno gioco. Con meno ottimismo. Ho cercato di raccontare, attraverso le voci di trentanove bambini, il nostro tempo. Li ho interrogati sulla vita, l’amore, le loro passioni, il rapporto con Dio, sulla crisi, la famiglia e sull’omosessualità. I bambini non sono delle strane creature alla quali rivolgersi con quel tono fintamente comprensivo che gli adulti usano per comunicare con loro. I bambini hanno un loro mondo, un loro punto di vista, una loro meravigliosa sincerità. Questo film racconta come i nostri bambini , tra gli otto e i tredici anni, osservano e giudicano l’Italia, la loro vita, i grandi, il futuro… [sinossi]

La retorica dell’infanzia è una delle cancrene più evidenti del sistema democratico occidentale. L’informazione mediatica separa sempre, con metodica attenzione, i bambini dagli adulti, neanche si trattasse di corpi estranei, “diversi”. A bordo degli aerei caduti c’erano uomini, donne e anche bambini; sui barconi che affondano al largo delle nostre coste i disperati migranti a bordo sono uomini, donne e bambini; la crisi che ricatta e conduce alla fame milioni di persone si accanisce perfino sui bambini. Gli infanti, rigorosamente in fase pre-adolescenziale, sono “puri”, inattaccabili, sempre belli. Sui profili dei social network le immagini di neonati e bimbetti combattono una guerra quotidiana a suon di like e di commenti traboccanti emoticon con quelle di gattini.
La retorica dell’infanzia, da sempre uno dei cavalli di battaglia del centrismo di ispirazione cristiana (“nel futuro dei vostri figli io centro”, chiosava qualche anno fa dai cartelloni pubblicitari il volto sorridente di Marco Follini) si è trasformato inevitabilmente in uno dei mantra ossessivi del centro-sinistra con neanche troppo vaghe ombreggiature destrorse del Partito Democratico, fin dalla sua fondazione.
Sulla base di quanto appena scritto non dovrebbe smuovere alcun dubbio la scelta di Walter Veltroni, che del PD fu primo e più fervente assertore, di incentrare il suo secondo documentario su delle interviste a trentanove bambini. Come nel precedente Quando c’era Berlinguer, dove ovviamente il centro del discorso era la memoria del leader del PCI, costruita in modo tale da rappresentare il passaggio del testimone da quell’esperienza a quella dell’ex direttore de L’Unità (ed ex ministro della cultura, ed ex sindaco di Roma), anche I bambini sanno torna utile a Veltroni per marcare il territorio, segnare un punto, piantare una bandierina.

Negli interventi e nelle opinioni di questi bambini, tra i nove e i tredici anni di età (ed ecco che torna preponderante il discorso sul pensiero pre-puberale), che dissertano di amore, omosessualità, dio, amicizia, diversità e chi più ne ha più ne metta, lo sguardo del regista si fa apparentemente assente per poter coordinare a distanza, manovrare dietro le quinte. Una sorta di governo-ombra del set cinematografico. A prima vista I bambini sanno è un’opera piana, che non ha bisogno di alcuna sovrastruttura per essere letta e interpretata: il regista pone un interrogativo e i bambini, senza distinzione di età, di ceto o di esperienza personale, rispondono. Fin qui l’idea potrebbe anche essere considerata interessante. Ma sotto le coltri e gli ammiccamenti di una colonna sonora melliflua e ricattatoria, si nasconde un’ideologia ben precisa. Innanzitutto Veltroni opera una scelta di fondo a dir poco avvilente: dei trentanove bambini posti davanti alla videocamera solo pochi vengono da una condizione di vita o abitativa che rappresenta la media della nazione. Per il resto si tratta sempre di casi straordinari: la ragazzina adottata da due donne, il bambino colombiano adottato, il genio della matematica catanese sprezzante ed egocentrico, le due gemelle, di cui una affetta dalla sindrome di Down… Nel compilare questa lista, e durante la visione del film, ci si rende conto di come in realtà Veltroni non abbia alcun rispetto per il pensiero infantile in quanto tale. I bambini sanno suggerisce allo spettatore una riflessione immediata: “i bambini sanno”, ma solo ed esclusivamente se hanno avuto una vita particolare, se hanno dovuto affrontare delle difficoltà, se hanno vissuto dei lutti, degli strazi. Insomma, i bambini sanno solo quando sono bambini solo nel corpo, ma non nelle esperienze attraverso cui sono passati. Un punto di vista preoccupante.
Nella sua spasmodica ricerca di dimostrare come non esistano “diversità”, come tutti i bambini sotto sotto siano uguali, Veltroni dimentica (?) un passaggio fondamentale: la diversità è ricchezza, finché tutti i diversi possono contare sugli stessi diritti. Ed è qui che I bambini sanno frana definitivamente. Quando Veltroni deve intervistare il bimbo rom che vive in una roulotte in un campo, sfodera tutta la propria dirompente “democrazia”, ma non può impedirsi (ah, la retorica!) di volgere lo sguardo verso il pattume, la miseria, l’orrido. Così, mentre il bambino spiega come a dargli fastidio sia il rumore che fanno i topi nel tentativo di entrare nella roulotte, Veltroni non riesce a resistere alla tentazione di mostrarli, quei topi, di far vedere ciò che era evocato solo dalle parole.

È nell’immagine, e nella trattazione della stessa, che la poetica de I bambini sanno irrompe in tutta la sua insopportabile grana grossa. È nell’immagine e nel montaggio che si svela il gioco corrotto del pensiero veltroniano. Il buonismo di un Partito Democratico (veltroniano prima, renziano ora) che accoglie i derelitti ma storce il naso di fronte ai loro diritti è la chiave di volta di un documentario piuttosto rozzo, in cui le aspirazioni liriche del regista deflagrano in un accumulo difficilmente sostenibile di retorica a pochi passi dal pubblicitario/propagandistico. Di fronte agli svolazzi inutili della videocamera alla ricerca del vento, della natura, delle foglie, diventa preferibile perfino la piatta frontalità dell’intervista.
In molti, anche all’anteprima stampa, hanno asserito che è doveroso posizionare da una parte il Veltroni politico e dall’altra il Veltroni regista. Ma sarebbe un errore gravissimo. Se l’immagine è di per sé politica – e non lo si scopre certo oggi – e il “pensiero si fa nella bocca”, per rubare le parole a Tristan Tzara, I bambini sanno è un atto ai limiti dell’ideologico, che non può essere scisso dalle (dis)avventure politiche del suo creatore.
Il Veltroni documentarista spinge nella stessa direzione di quello politico, e il suo è un cinema che sorride e piange, ma solo apparentemente lo fa con i suoi protagonisti. Vorrebbe omaggiare/imitare I quattrocento colpi di François Truffaut, ma il suo cinema assume immediatamente le forme di “I am PD” video promozionale per le elezioni del 2008, nelle quali Veltroni fu sonoramente sconfitto da Silvio Berlusconi. L’infanzia avrebbe meritato un trattamento più onesto, e una costruzione meno artefatta.

Info
I bambini sanno, il trailer.
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