Intervista a Bertrand Tavernier
In attesa di ricevere il Leone d’Oro alla carriera alla prossima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, Bertrand Tavernier, eclettico regista, sceneggiatore, critico e produttore francese, arricchisce la sua già ricca bacheca di riconoscimenti con un altro premio alla carriera, ossia l’Ulivo d’Oro, consegnatogli lo scorso 14 aprile in quel di Lecce durante la seconda serata del 16° Festival del Cinema Europeo. Lo abbiamo incontrato proprio in occasione della partecipazione alla kermesse salentina che gli ha dedicato una rassegna di dieci titoli, compreso Quai d’Orsay, il suo film più recente e ancora inedito in Italia, realizzato nel 2013, una sottile commedia satirica tratta dall’omonima graphic novel di culto di Christophe Blain e Abel Lanzac. Questo incontro ci ha dato la possibilità di rivolgergli qualche breve domanda sui temi e gli stilemi del suo cinema, sul rapporto con il suo attore feticcio Philippe Noiret e sugli impegni futuri.
Con i suoi film ha sempre affrontato temi come l’intolleranza e la tendenza al potere assolutista, cosa pensa del fatto che ancora oggi si verifichino episodi di questo tipo in Paesi come la Francia e l’Italia?
Bertrand Tavernier: Penso che quando faccio un film come ad esempio La princesse di Montpensier, dove si parla di massacri commessi in nome di Dio, finisco con il parlare anche di quello che succede ai giorni nostri. Trattare il passato è un modo per parlare del presente e il personaggio della protagonista che è costretta a sposare un uomo che non conosce è un personaggio che potremmo incontrare oggi in decine e decine di Paesi. Uno storico dopo aver visto il mio film mi disse che non c’era nessuna differenza tra la mia eroina che apparteneva alla nobiltà decaduta del passato e una giovane oppressa dal fondamentalismo, perché entrambe non hanno più diritti e non possono scegliere il proprio destino. Ed è molto interessante analizzare questo e scoprire che una parte del mondo non abbia fatto progressi in tal senso dal XVI° secolo. Molte giovani donne hanno visto in questo film qualcosa che parlava anche di loro. Mi dispiace moltissimo che questa pellicola non sia mai stata distribuita in Italia, perché è diventato difficilissimo vendere opere francesi di questo tipo a canali televisivi italiani come quelli della Rai. E penso che questo sia molto preoccupante, poiché si tratta di due cinematografie che in passato si sono aiutate e spalleggiate a vicenda. Gli ultimi film di Fellini sono stati realizzati grazie al contributo di società francesi, così come tanti grandi film transalpini sono stati co-prodotti con l’Italia. I produttori dei due Paesi viaggiavano sulla stessa linea di pensiero e con l’avvento di Berlusconi le cose si sono definitivamente arenate.
La morte in diretta è da considerare a distanza di tempo un film ancora attualissimo, in una certa misura ha persino anticipato la futura rivoluzione tecnologica avvenuta e l’uso distorto che se n’è fatto e che se ne continua a fare; cosa ne pensa?
Bertrand Tavernier: Quando ho girato quel film pensavo in maniera naïf che stessi realizzando un film di fantascienza. Quindici anni dopo nel mio Paese (la Francia) quello è diventato un film realista, una testimonianza sull’evoluzione dei media di grande attualità. Oggi non c’è più bisogno di mettere una videocamera nel cervello di una persona, perché ora tutti hanno una videocamera a disposizione. Questa facilità potrebbe provocare un aumento della stupidaggine e dell’ignoranza nell’essere umano. Il numero di giovani in Francia che hanno commesso dei delitti, rubato o picchiato i professori, è aumentato in modo vertiginoso. Ma la cosa più incredibile è che si sono condannati da soli, perché filmandosi mentre commettono tali reati si sono praticamente autodenunciati. Per esempio nei film francesi i gangster non si filmavano mentre andavano a svaligiare le banca. Avevano una forma d’intelligenza che diceva loro di non lasciare tracce. Adesso, invece, la vanità e l’irresponsabilità porta le persone a voler lasciare delle tracce dei delitti commessi. Questo dovrebbe spingere gli insegnanti e gli intellettuali a fare riflettere la gente su queste questioni. L’unica risposta attuale dell’insegnamento è quella di combattere l’ignoranza mettendo gli alunni davanti a dei computer e di questa cosa avevo già parlato ne La morte in diretta, dove ci sono delle manifestazioni in piazza organizzate per difendere i professori dalla minaccia cibernetica. Penso con quel film di aver anticipato un po’ i tempi.
Lei ha avuto nei cast di molti dei suoi film Philippe Noiret, cosa l’affascinava delle sue interpretazioni e del suo modo di lavorare?
Bertrand Tavernier: Io gli devo la mia carriera, ha creduto in me sin dall’inizio. Ha letto una mia sceneggiatura e ha subito accettato. Nonostante i ritardi che ci sono stati è rimasto comunque fedele alla promessa. Per riconoscenza ho continuato a lavorare con lui anche perché lo consideravo un attore straordinario, molto libero e caparbio, capace di attraversare le epoche, i mestieri e i contesti più differenti. Non aveva paura di nessun personaggio, simpatico o antipatico, buono o cattivo non faceva alcuna differenza. Poteva passare da un principe del XVIII° secolo a un artigiano del XX° secolo con la stessa verità e naturalezza. In più era una persona con una cultura e uno humour straordinari. Aveva la capacità di farti sembrare sempre il lavoro facile. Faceva finta di non conoscere la sceneggiatura, ma invece la conosceva alla perfezione. Sapeva tutto del personaggio e delle sue emozioni. Non aveva bisogno di psicoanalizzarlo come facevano o fanno gli attori americani. In questo era molto simile a Mastroianni. Non riusciva, infatti, a capire perché a De Niro occorressero venti minuti prima di girare una scena, venti minuti di assoluto silenzio. Penso che il nostro rapporto sia stato molto simile a quello che c’era tra Fellini e Mastroianni. Una fiducia assoluta tra un regista e un attore. Per me il rapporto con gli attori è qualcosa di assolutamente primordiale.
Alla prossima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia riceverà il Leone d’Oro alla carriera, ma il Direttore Alberto Barbera le ha affidato anche il compito di curare la selezione dei film che andranno a comporre il programma della sezione “Venezia Classici”; cosa ci può anticipare a riguardo?
Bertrand Tavernier: Penso che un buon modo per combattere il proprio ego è quello di mostrare e parlare di film realizzati dai colleghi. A Venezia ho intenzione di presentare tre o quattro film praticamente sconosciuti, anche se in verità ne esistono almeno un’altra cinquantina per ogni Paese. Ho un blog sul sito degli autori francesi dove parlo di film poco conosciuti e mi succede spesso di scrivere e presentare queste opere o di partecipare a interviste o testi di contenuti extra di dvd. Credo che il direttore della Mostra, Alberto Barbera, abbia avuto questa idea anche seguendo il Festival Lumière a Lione, dove mi ha sentito presentare pellicole poco conosciute, che poi alle proiezioni hanno avuto un grandissimo successo di pubblico, come ad esempio Le désordre et la nuit di Gilles Grangier con Jean Gabin. Fino a questo momento ho consegnato una lista di una quindicina di titoli, ma dipende molto dalle condizioni in cui si trovano le copie poiché alcune di esse non sono in buono stato. Tra questi c’è La Fin du jour di Julien Duvivier, che al momento è in fase di restauro da parte della Pathè e speriamo che venga terminato
Quale o quali saranno i suoi prossimi impegni dietro la macchina da presa?
Bertrand Tavernier: Sto lavorando a un pilota ma non so ancora esattamente cosa diverrà. Penso che sarà una serie di due film per il cinema alla quale sto lavorando con il supporto entusiasta di Gaumont e Pathè. In questi due documentari parlerò del mio rapporto con alcuni film che mi hanno particolarmente colpito e con i loro registi. Per esempio partirò del primo film che ho visto all’età di sei anni mentre ero in ospedale a curarmi dalla tubercolosi, che anni dopo ho scoperto essere un film di Becker, che ritengo uno dei più grandi registi francesi di tutti i tempi. Quel ricordo e quel film saranno il punto di partenza di un viaggio personale di riscoperta del cinema che ho amato e che ha accompagnato la mia vita.