Storie sospese

Storie sospese

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Con Storie sospese, Stefano Chiantini rilegge una storia emblematica di sfruttamento del territorio (la frana di Chieti) filtrandola dall’ottica di un singolo personaggio, in un insieme interessante ma non sempre equilibrato.

Sospendere la coscienza?

Thomas, addetto alla messa in sicurezza di una parete rocciosa, perde il lavoro a causa dell’incidente mortale occorso a un collega. Rimasto disoccupato, accetta l’offerta di un suo vecchio amico, che gli propone un’occupazione presso un vicino paese, in cui la sua azienda sta costruendo un tunnel autostradale. Presto, però, Thomas si accorgerà che un gran numero di cittadini contestano la realizzazione dell’opera… [sinossi]

Al suo terzo lungometraggio, Stefano Chiantini si cimenta nel cinema di impegno civile. Lo fa, il regista abruzzese, prendendo spunto da una vicenda ancora aperta (quella della Variante di valico realizzata sotto il paese di Ripoli, e della conseguente frana che provocò l’evacuazione di diverse abitazioni); uno spunto che assurge ad emblema di un modo tutto italiano, tra clientelismi e assenza di sicurezza, di concepire la realizzazione delle grandi opere. La dedica finale agli abitanti di Ripoli, quindi, non esclude che questo Storie sospese voglia farsi in qualche modo storia-simbolo, raggruppando idealmente tutti quei “cantieri aperti” (dalla TAV al Mose) che hanno provocato la ferma opposizione delle comunità locali, e di cui da tempo resta controversa l’utilità. Nell’immaginario paesino abruzzese in cui il film è ambientato, nei sigilli su strade e case, nella funerea previsione per cui “presto questa diventerà una città fantasma”, è d’altronde presente anche il fantasma, mai sopito, del terremoto dell’Aquila del 2009: ferita inferta al territorio, anch’essa tale da scoperchiare un coacervo di inefficienze, interessi e clientelismi nella gestione dell’emergenza, ben lungi dall’essersi rimarginata.

Uno degli elementi più interessanti del film di Chiantini è quello di aver voluto filtrare una storia collettiva (pur fortemente radicata all’interno di un territorio) attraverso uno sguardo esterno, per sua natura “decentrato”: quello del rocciatore interpretato da Marco Giallini, giunto in paese dopo la perdita del suo precedente lavoro a causa di un incidente mortale occorso ad un collega. La presentazione del personaggio, con la descrizione della vita dei rocciatori, l’imponenza delle location appenniniche, e la delineazione di un’esistenza che viene suggerita come sempre in bilico, tra rischio e solitudine, è efficace e funzionale; così come intelligente, e nel segno del non detto, si rivela la narrazione della tragedia che investe gli uomini, la morte che provoca la punizione dei non colpevoli (gli operai che perdono il posto), l’assenza di qualsiasi accenno di lacrime e melodramma, che non esclude una pesante cappa nera che resta posata sulla coscienza del protagonista. Coscienza che verrà messa, di nuovo, a dura prova di fronte allo spettro della complicità, quando al protagonista diventerà chiara la natura del suo nuovo lavoro, gli interessi da questo implicitamente difesi e quelli evidentemente lesi.

Il film, di cui vanno riconosciuti i meriti divulgativi, insieme al vigore nella resa del dramma del paese, incespica tuttavia in una narrazione non equilibratissima, spesso incerta sulla direzione da prendere. Tra la dimensione privata, intima, della vita del personaggio di Giallini, e le ricadute pubbliche della sua attività, la sceneggiatura si perde nella descrizione di rapporti irrisolti (quello con la maestra d’asilo interpretata da Maya Sansa) e in schematismi troppo smaccati (il rapporto, e la giustapposizione di caratteri e attitudini, col nuovo collega, a cui dà il volto Alessandro Tiberi). La sceneggiatura frammenta, in modo non sempre felice, la linea narrativa principale (quella della presa di coscienza da parte del rocciatore, e della lenta maturazione di una scelta) in episodi narrativamente poco funzionali, a volte resi con un tono da commedia che resta poco in linea col soggetto. Quando lo script si avvia, comunque, sul binario della messa a nudo del dramma della comunità, e degli interessi che minacciano quest’ultima (incarnati dal riuscito personaggio di Antonio Gerardi) il film acquista vigore e compattezza; completandosi in un finale, anch’esso nel segno dell’essenzialità e dell’assenza di retorica, che recupera bene i toni della sua prima parte.

Resta così, quella di Chiantini, un’opera degna di interesse, coraggiosa nel suo astrarre (idealmente) tante vicende significative, facendole confluire in un’unica storia, osservata dall’ottica di un singolo personaggio: gli squilibri appannano la lucidità del quadro di insieme, ma la sincerità di intenti permette in parte di soprassedere sui limiti narrativi.

Info
Il trailer di Storie sospese su Youtube.

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