La legge della tromba

La legge della tromba

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Il folgorante esordio alla regia di Augusto Tretti, La legge della tromba, è un esempio di autorialità completamente fuori dagli sche(r)mi. Riscoperto da Locarno nel 2014 e da Torino nel 2015.

Assolo

Celestino e quattro amici tentano di rapinare gli addetti al trasporto dei valori di una banca, ma finiscono in prigione. In seguito a una evasione e usufruendo di un’amnistia, riacquistano la libertà. Celestino si reca dal prof. Liborio per ottenere un lavoro e viene assunto con gli amici presso una fabbrica di trombe. Il giovanotto conosce Marta e se ne invaghisce, ma Liborio circuisce la donna e la sposa perché ha saputo che il padre della ragazza possiede una miniera. Liborio chiude la fabbrica di trombe e si trasferisce all’estero per sfruttare la miniera del suocero. Celestino, amareggiato, trova lavoro in una fabbrica di razzi. In qualità di collaudatore Celestino sale su un razzo, ma, dopo un’esplosione, va a cadere a cavalcioni di un albero. [sinossi]
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La storia ufficiale tramanda che nel 1960 uno sconosciuto trentaseienne veronese calò su Roma armato delle bobine di un film in bianco e nero che aveva girato al di fuori del sistema produttivo ufficiale, con l’intento di promuoverlo alla platea di critici capitolini. Uniformi nel giudizio, i critici visionarono con sdegno la pellicola, e consigliarono al regista di occuparsi d’altro. Il cinema non era affare per lui. A questa prima proiezione ne fece però seguito una seconda, dagli esiti molto diversi. Il film arrivò infatti anche davanti agli occhi di Alberto Moravia, che invitò Augusto Tretti (questo il nome del regista) a far vedere il suo strano esordio anche ai colleghi cineasti. Qui Tretti trovò i suoi più accesi sostenitori, da Valerio Zurlini a Florestano Vancini, passando per Federico Fellini. Un bolognese, un ferrarese e un riminese: chissà che non abbia pesato, nell’entusiasmo con cui venne accolto La legge della tromba, anche il riferimento a un’area culturale, oltre gli Appennini e lontana da Roma, provinciale o comunque distante dal cuore politico ed economico dell’Italia.
In ogni caso Tretti, snobbato con cieca mediocrità dalla critica, trovò l’appoggio che gli era indispensabile nel microcosmo degli autori, alimentando un culto persistente che lo accompagnerà fino alla morte, sopraggiunta nel giugno del 2013, a quasi novant’anni.

La fortuna critica e giornalistica continuò invece a latitare, complici i pochi film portati a termine e l’assoluta mancanza di “norma” che li pervade. Neanche le abituali lacrime di coccodrillo sono arrivate in questi anni, e così ci si è dovuto accontentare di qualche saggio reperibile online e della preservazione della memoria a cui hanno contribuito cineteche, festival e l’onnipresente “Fuori Orario” ghezziano. Non è dunque un caso che due terzi della filmografia di Tretti (mancano, scelta bizzarra, solo il terzo lungometraggio Alcool e il mediometraggio Mediatori e carrozze, rispettivamente del 1980 e 1984) trovino ospitalità all’ombra della Mole Antonelliana, durante la trentatreesima edizione del Torino Film Festival; nell’agosto del 2014, invece, La legge della tromba era stato programmato a Locarno all’interno dell’ottima retrospettiva che il festival diretto da Carlo Chatrian aveva dedicato alla Titanus.
Fu infatti Goffredo Lombardo a credere nelle potenzialità del film, dopo che Tretti aveva dovuto chiuderne la produzione da solo, con i pochi investitori milanesi che se l’erano data a gambe appena compresa la portata eversiva di questo strano oggetto (del desiderio). Non è facile comprendere fino in fondo la potenza rivoluzionaria de La legge della tromba, che a un occhio disattento può apparire “solo” come una commedia grottesca e sopra le righe, genere non poi così inusuale all’intero di un sistema che ha sempre eletto la risata a proprio simbolo.

Ma l’irruzione di questo sghembo gioco surreale nel panorama italiano pronto a gettarsi nel boom economico ha qualcosa di misterico e miracoloso. Tretti, che mescolava un sincero antimilitarismo con una vena anarcoide corroborata dalle visioni in età infantile delle comiche di Charlot e Buster Keaton, mette in piedi un film che è, già solo con la sua esistenza, un atto di resistenza contro la prassi usurante del cinema industriale. Ideato e portato a termine lontano da Roma e dai suoi salotti culturali, La legge della tromba non possiede nulla dei cliché di una commedia che si stava abituando in gran fretta a vestire i panni della nuova borghesia.
Al contrario Augusto Tretti si diverte a scardinare qualsiasi meccanismo borghese, mettendo alla berlina in tutto e per tutto il sistema di valori su cui si basa l’ideologia del Capitale. Non c’è un solo elemento del cinema industriale che il regista veronese accetti di utilizzare nel modo corretto: persino il montaggio, che viene affidato alle cure dell’esperto Mario Serandrei (al lavoro, tra gli altri, per La maschera del demonio di Mario Bava, Le mani sulla città e Salvatore Giuliano di Francesco Rosi e Il bidone di Federico Fellini, sul cui set lavorò come assistente lo stesso Tretti), viene rallentato e accelerato ricostruendo da capo il senso del ritmo.

Quasi si trattasse di un assolo di bop, La legge della tromba vive e si costruisce su una fragilità apparente da cui trae tutta la propria forza: facendosi beffe dei singulti intellettuali da cui si partoriranno le “vague” di mezza Europa, Tretti edifica un racconto che, all’occhio appesantito dal “canonico” rischia di apparire ai limiti dell’amatoriale. Gli attori sono tutti non professionisti, ma non per un impeto di verità, solo perché in questo modo possono essere plasmati (e usati) non più efficacia dal regista. Il suono è completamente decostruito, in barba alle più basilari regole di verosimiglianza: l’uso che ne fa Tretti è così personale e strutturato – in ogni singola inquadratura è il regista a scegliere cosa si deve udire, e in che modo – da dimostrarsi non solo teorico, come l’intero film, ma anche profondamente politico.
Utilizzare l’aggettivo anarchico per il cinema di Tretti non deve apparire un vezzo intellettuale: La legge della tromba è un inno alla non accettazione della società “civile” così profondo e viscerale da trascinare via con sé lo spettatore. Si ride, nel film di Tretti (caratteristica che resterà valida anche nel resto della sua breve filmografia), ma la risata sembra più che altro un processo inevitabile per anchilosare una volta per tutte i marchingegni di un sistema obeso. La scelta dell’inattuale, dallo slapstick fino alle sarabande sonore, diventa dunque simbolo di uno spostamento dell’asse, in grado (anche se solo per un’ora o poco più) di squilibrare quel piano che tutti vorrebbero far apparire perfettamente liscio e saldo.
Si può uscire interdetti dalla visione de La legge della tromba, ufo comparso dal nulla e scomparso più o meno negli stessi lidi – ma schegge impazzite della sua poetica sono rimbalzate da una parte all’altra del cinema italiano per cinquant’anni –, ma è un rischio che vale la pena correre. Un razzo in partenza verso spazi illimitati. Se ne sono mai esistiti.

Info
La legge della tromba, il prologo.

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