God Bless the Child
di Robert Machoian, Rodrigo Ojeda-Beck
Opera esteticamente enigmatica, God Bless the Child interroga il linguaggio-cinema ai confini tra cinema-verità e finzione, spontaneo e preordinato, sfidando le convenzioni narrative con un’estrema messa in gioco del privato. In concorso a Torino 33.
I bambini e lei
Quattro bambini di varie età vengono abbandonati alle cure della sorella più grande da una madre depressa e inaffidabile. La ragazza fa quel che può per gestire la difficile situazione, mentre i fratellini si lasciano andare a una progressiva anarchia domestica. [sinossi]
Grossa, grossa crisi. Un film come God Bless the Child mette in seria difficoltà chi ne deve scrivere per una breve recensione durante un ampio festival, perché innanzitutto bisognerebbe confrontarsi a lungo con i due filmmaker, Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck, e porre loro domande sui metodi di realizzazione, sul lavoro svolto durante le riprese, su quali sono state le tempistiche, le interazioni coi bambini protagonisti, le proporzioni tra cattura di realtà e shot preordinati, se c’è stata preparazione dei bambini e in quale misura, e via discorrendo.
Al momento ci è dato solo sapere che il film è stato realizzato con protagonisti i figli di uno dei registi (Machoian), il quale ha fornito pure la location principale, ovvero la sua dimora. Per il resto, God Bless the Child solleva molti interrogativi e curiosità, e interviene una volta di più a confondere i confini tra categorie estetiche che non sono mai state veramente valide nel corso della storia del cinema, e che negli ultimi anni appaiono sempre più superate. Documentario, fiction, docu-drama… Il cinema, in realtà, è uno solo, e God Bless the Child lo riconferma a chiarissime lettere.
All’uscita della sala dopo una proiezione mista di accreditati e pubblico c’era chi lamentava l’assenza di una “trama”. La verità perturbante è proprio l’opposto. God Bless the Child ha eccome una “trama” precostituita, sia pure labilissima e aerea. È la storia di quattro bambini di età diversa lasciati soli in casa con la sorella più grande, dopo che la madre, soggetto depresso e inaffidabile, è sparita per l’ennesima volta. Solo che per raccontare questo Machoian e Ojeda-Beck utilizzano i figli di uno di loro, lasciandoli a evidente briglia sciolta per lunghissimi tratti, mentre la “trama” si discioglie in una generale opposizione alle narrazioni convenzionali. Di cinema tradizionalmente narrativo realizzato con adulti o bambini non professionisti è piena la storia del cinema (basti pensare alle opere più note del neorealismo italiano), ma God Bless the Child è qualcosa di molto diverso e davvero singolare: un’operazione di messa in gioco del privato per un obiettivo di totale franchezza nel racconto della dimensione infantile, con pagine divertenti ma anche imprevedibilmente sgradevoli.
Per cui sarebbe realmente necessario, prima di mettere nero su bianco qualsiasi considerazione, parlare con i filmmaker, partendo proprio dalle motivazioni profonde di una tale contaminazione che rischia di lasciare ombre d’ambiguità estetica. Perché a uno sguardo da “prima lettura” la cornice posticcia dell’abbandono materno rimane nebulosa e poco coesa col resto, e qua e là sentire battute di dialogo imposte (o suggerite) ai bambini sortisce effetti stranianti, soprattutto se alternate a lunghi piani-sequenza evidentemente spontanei: un cinema dell’estrema verità (per lunghi tratti i bambini si picchiano pure, liberi di giocare alla legge del più forte) combinato con la ripresa palesemente scritta e costruita (lo smarrirsi tra i campi, l’incontro della sorella più grande al parco con un amico forse interessato a lei, le telefonate della ragazza in cerca della madre…). D’altra parte, i bambini sono spesso grandiosi attori per la loro innata e involontaria comicità data da strepitose risorse di fantasia, per cui alcune delle sequenze migliori sono frutto di cattura di realtà ma hanno propri tempi comici “naturali” (da antologia il lavaggio del cane, del quale non dimenticheremo mai lo sguardo attonito, ma è altrettanto geniale anche il rubinetto della vasca da bagno riconosciuto come “pene del muro”).
Così ragionando, God Bless the Child dev’essere probabilmente accolto per come si presenta da prodotto finito e compiuto, e per far questo non c’è bisogno di interrogare troppo neanche i suoi autori: un’opera perturbante che non contempla più confini netti tra “reale” e ricostruito, ma tende a uniformare i vari contributi in un unico fatto cinematografico. Ché d’altra parte la realtà termina nel momento in cui la macchina da presa è messa in funzione. Quindi è tutto falso (o tutto vero), a prescindere dai metodi di lavoro o ripresa dei singoli contributi. In tal senso il film si delinea come una vera e propria dichiarazione d’intenti, in cui viene elevato a fatto estetico rilevante anche il cinema privato. Nel suo insieme God Bless the Child è un’opera aspra e potente, e sicuramente pionieristica. Le implicazioni estetiche e di “etica cinematografica” sollevate da un’opera simile sono infinite, così come sarebbe interessante indagare le relazioni sul set tra filmmaker-padre e soggetti profilmici-figli. In che modo hanno lavorato, quali sono stati i movimenti emotivi provocati da una tale collaborazione. Forse è il pregio meno vistoso e più importante di God Bless the Child: il fare cinema ricondotto a un’esperienza emotiva, che mette in gioco montagne di reazioni e relazioni.
Info
La scheda di God Bless the Child sul sito del Torino Film Festival.
- Genere: documentario, drammatico
- Titolo originale: God Bless the Child
- Paese/Anno: USA | 2015
- Regia: Robert Machoian, Rodrigo Ojeda-Beck
- Sceneggiatura: Rebecca Graham, Robert Machoian
- Fotografia: Robert Machoian
- Montaggio: Rodrigo Ojeda-Beck
- Interpreti: Arri Graham, Bruce Graham, Elias Graham, Ezra Graham, Harper Graham, Jonah Graham
- Produzione: Kenneth Rainin Foundation, San Francisco Film Society
- Durata: 92'