Balikbayan #1 – Memories of Overdevelopment Redux III

Balikbayan #1 – Memories of Overdevelopment Redux III

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Il monumentale film del filippino Kidlat Tahimik, portato a termine in trentacinque anni, è un viaggio nei viaggi di Ferdinando da Magellano, che diventa scoperta del cinema, delle Filippine, e racconto di un impero che non c’è più. A Torino 2015 in Onde.

Epica dell’identità

Schiavo di Ferdinando da Magellano, il filippino Enrique partecipò alla circumnavigazione del globo e fu forse il primo a portarla a termine, dopo la morte del suo padrone. Nel 1980 Kidlat Tahimik girò un film mai finito su Enrique (interpretandone anche il ruolo); nel 2013 ha ripreso quelle immagini sia per vedere cosa ne era stato nel frattempo sia per tornare nella provincia di Ifugao, alla ricerca della verità su un personaggio storico dimenticato. Dalla sua ricerca è nato un film che è al tempo stesso un’epica, una riflessione sul colonialismo, un lavoro sulla memoria cinematografica e sull’identità di un popolo. [sinossi]

Il termine datu, per la maggior parte delle persone, non ha alcun significato. In pochi sanno che nelle Filippine sta a indicare un titolo nobiliare; una carica non troppo dissimile a quella dei monarchi occidentali. Prima che le Filippine fossero assoggettate alla Spagna e annesse all’impero, l’arcipelago era una confederazione, detta “di Madya-as”, suddivisa in regni comandati dai suddetti datu. A Mactan, un’isola della provincia di Cebu, nel 1521 il datu era Lapu-Lapu: furono i suoi uomini a colpire a morte Ferdinando Magellano, accorso con la sua flotta per sedare una rivolta. Finì così il sogno di Magellano di compiere la prima circumnavigazione del globo; la flotta tornò in Spagna in condizioni di estrema indigenza, con appena diciotto uomini a bordo e senza il corpo di Magellano, rimasto nelle mani dei sudditi di Lapu-Lapu e mai riscattato. Un momento esaltante e tragico della storia umana, un incrocio a suo modo schizoide tra il desiderio di scoperta e di conquista e la capacità delle colonie di rivoltarsi, rifiutando il giogo delle potenze europee. Al di là di ogni speculazione filosofica o storica, il nome di Magellano è identificato con il viaggio oltre ogni limite e confine fino a quel momento raggiunto, o considerato.
Anche Kidlat Tahimik, nel corso della carriera da regista, ha cercato di spingersi oltre dei limiti, imposti di volta in volta dai budget a disposizione, dalle possibilità produttive o da quel che aveva deciso di raccontare sullo schermo. Per quanto, così come il termine datu, al di fuori delle Filippine non siano in molti a conoscerlo, il nome di Kidlat Tahimik è fondamentale per approcciarsi alla storia del cinema filippino. E non solo. Senza volersi affidare all’iperbole, e senza alcuna intenzione di semplificare in maniera eccessiva la questione, la “nuova onda” del cinema filippino, che porta in giro per i festival di mezzo mondo i vari Lav Diaz, Raya Martin, Khavn de la Cruz, Gym Lumbera, John Torres, Pepe Diokno e Dodo Dayao, non avrebbe avuto possibilità di svilupparsi in questo modo senza il contributo essenziale di Kidlat Tahimik, vero e proprio “padre” del cinema indipendente filippino.

Quando sul finire degli anni Settanta i suoi primi film iniziarono a essere proiettati anche in Europa, soprattutto in Germania, Tahimik aveva già lavorato con uno dei suoi amici e fan più sfegatati (tra questi vale la pena citare quantomeno Fancis Ford Coppola), Werner Herzog, recitando un piccolo ruolo ne L’enigma di Kaspar Hauser. Non c’è possibilità di trovare appigli semplici, nei film di Tahimik – il cui vero nome è Eric de Guia, visto che in tagalog “Kidlat Tahimik” è traducibile con “Fulmine silenzioso” – e lo dimostra una volta per tutte Balikbayan #1 – Memories of Ovedevelopment Redux III, ultima monumentale fatica del regista filippino. Già presentato a febbraio alla Berlinale in Forum, e ora riproposto dal Torino Film Festival all’interno del ricco palinsesto della sezione Onde, Balikbayan #1 è un’operazione ai limiti del folle già nel disvelamento del progetto. Iniziato nel 1979, quando Tahimik aveva diretto solo l’esordio Perfumed Nightmare e l’ancor più eterodosso Who Invented the Yo-Yo? Who Invented the Moon Buggy?, il film è uno di quei rari e preziosi esempi di opere destinate a non essere mai finite. Non solo per problemi economici, gli stessi che permisero al regista di portare a termine solo una piccola parte delle riprese in un lussureggiante 16mm, ma anche per una naturale propensione all’aggiunta, alla revisione, alla possibilità di rimettere mano al montato in qualsiasi momento. In questo senso acquista un valore tutto particolare quel #1 che segue il titolo: più che un film si tratta di un tentativo, un’ipotesi.
Ma questo è solo uno degli aspetti che rende Balikbayan #1 una visione imparagonabile a qualsiasi altra. Nel suo mettere in scena una revisione del mito di Magellano filtrata attraverso la lente del Terzo Cinema, Tahimik compie un movimento laterale netto, uno scarto sensibile: nel materiale girato tra il 1979 e il 1989 (le riprese sono andate avanti a singhiozzo fino al 2014, o forse fino a gennaio 2015, per poter chiudere il tutto in tempo per la Berlinale), il regista si ritaglia anche il ruolo di co-protagonista intepretando Enrique, lo schiavo filippino che segue la spedizione di Magellano, e che rappresenta il vero sguardo sul mondo, sulla filosofia dell’uomo, sull’incedere del tempo e l’attraversamento dello spazio.

Balikbayan #1 diventa dunque anche riflessione sul colonialismo, culturale e politico, e sul modo in cui è stato assorbito da una nazione frammentata come le Filippine. La parte in pellicola girata sul finire degli anni Settanta dialoga direttamente con i passaggi successivi, girati di volta in volta con le tecnologie a disposizione: come la traversata di Magellano suggellava un passaggio epocale nella teoria stessa del viaggio e delle spedizioni via mare, così Balikbayan #1 mostra al pubblico il suo tempo già solo attraverso le immagini, la loro grana, la loro definizione. Balikbayan #1 è universale e particolare allo stesso tempo: racconta una storia che per secoli è stata narrata da un’altra voce (in un’altra lingua, quella dei coloni, di chi deteneva il potere) ma svela anche una natura intima, percorso a suo modo autobiografico di un regista che ha girato nei ritagli di tempo, senza preoccuparsi un granché del modo in cui il materiale avrebbe dovuto fondersi. Senza sceneggiatura, con un impeto artistico dominato “solo” dall’idea.
Nel suo essere sempre in fieri, senza mai una postura che possa essere definitiva, il film svolge anche il ruolo di continua messa in dubbio del ruolo del regista, della sua predominanza su tutto il resto: dopo aver interpretato lo schiavo, Kidlat Tahimik non ha alcuna voglia di vestire i panni del dominatore, del colono, seduto sul suo scranno mentre gli altri faticano al suo posto. L’idea classica di cinema, e di piramide artistica, collassa una volta per tutte su se stessa, svelandone ipocrisie (quella dell’autore come übermensch cui tutto è concesso) e cortocircuiti logici.

Non è un oggetto facile da maneggiare, Balikbayan #1, anche perché non accetta in nessun modo la prassi. Come gli uomini di Lapu-Lapu, anche Kidlat Tahimik si ribella al senso comune, e dona una lezione di libertà che non ha molti paragoni possibili. Balikbayan #1 rinasce in continuazione dalle proprie ceneri, spostando l’asse di volta in volta avanti e indietro nel tempo, giocando con la Storia con un rigore politico che non rinuncia mai al dubbio; un film composto di percorsi laterali, sempre possibili, sempre a portata di mano. Perché Tahimik è oltre ogni cosa un narratore, esperto e tenero, avvolgente come la sua voce. Se non ha bisogno di una sceneggiatura è perché ciò che vuole raccontare non si serve necessariamente di dialoghi categorici o di sequenze strutturate nel minimo dettaglio. È anche per questo che il Magellano del 1979 può essere ora interpretato da uno dei figli del regista, che all’epoca delle prime riprese era un bimbo. Balikbayan #1 è una vera e propria storia infinita, che rinasce incessantemente da se stessa e muore di sequenza in sequenza. Senza drammi. Ogni singolo passaggio temporale di Balikbayan #1 è una morte. Ogni singolo taglio di montaggio è una ferita volontaria che Tahimik infligge alla sua creatura. Per fortificarla.
Appassionante e assolutamente distante da qualsiasi categorizzazione occidentale, ma anche asiatica, Balikbayan #1 non è un inno alla libertà. È la libertà, in atto. Se Tahimik si permette di tutto, con tanto di karaoke finale sui titoli di coda, non è per giocare con lo spettatore, o per lo meno non solo. Si tratta più che altro di una definizione del proprio essere al mondo, artistico, umano e politico. Tutto Balikbayan #1 potrebbe benissimo essere una canzone, come quella che dissacra il mito di Magellano, perché ogni arte può nascere e riprodurre arte a partire da questo bizzarro oggetto, sviluppatosi nell’arco di ben trentacinque anni, e di fatto ancora non finito. Se c’è però un aspetto caotico, in quest’opera, non deve essere letto in chiave negativa: Balikbayan #1 è un film espanso, deragliato, multiforme, ma non per questo non controllato. Solo che si tratta di un controllo a cui l’occhio non è (più) abituato, e che non si applica attraverso le regole di un sistema, ma solo nell’azione, nel movimento, nell’atto del filmare e dello scegliere cosa e perché filmare. Una differenza che può apparire capziosa, ma nella quale è racchiusa un’intera visione del mondo. Da circumnavigare.

Info
La scheda di Balikbayan #1 sul sito del TFF.
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  • balikbayan-1-memories-of-overdevelopment-redux-iii-2015-01.jpg

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