Irrawaddy mon amour
di Andrea Zambelli, Nicola Grignani, Valeria Testagrossa
La libertà di amarsi alla luce del sole anche in un lontano villaggio birmano. Irrawaddy mon amour di Zambelli, Grignani e Testagrossa è un bel documentario a tematica LGBT, discreto nell’approccio narrativo ma al fondo partecipe. In TFFdoc/Italiana.doc.
Il motore del 2000
In un villaggio birmano sulle rive del fiume Irrawaddy, due ragazzi omosessuali sono determinati a sposarsi nonostante il rischio d’arresto dato dalle persecuzioni dell’esercito. Li sostiene un attivista gay del luogo. [sinossi]
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Si può essere militanti senza sposare slogan e declamazioni, semplicemente tentando la narrazione di una realtà, di una condizione sociale e dei rinnovamenti in corso d’opera. La Birmania di oggi, fresca reduce dalle prime elezioni libere dal lontano 1990, si apre a scenari politici molto interessanti. Il trionfo di Aung San Suu Kyi, prima incarcerata dalla dittatura militare, poi premio Nobel per la Pace, fa sperare in una possibile rinascita democratica nazionale, e in lei ripone qualche speranza anche il locale movimento omosessuale, finora perseguitato dall’esercito con arresti e condanne morali. Irrawaddy mon amour del trio di filmmaker italiani Andrea Zambelli, Nicola Grignani e Valeria Testagrossa, già autori di Striplife, si pone al racconto di una piccola realtà, un villaggio birmano sul fiume Irrawaddy in cui alcuni gay hanno iniziato a unire le forze per sedute d’autocoscienza e campagne di sensibilizzazione. A fare da filo conduttore al racconto è la decisione di due ragazzi di provare a sposarsi. La loro decisione è pionieristica e i rischi sono molti, a cominciare per l’appunto dall’arresto. Sullo sfondo della loro scelta coraggiosa si erge una figura di attivista gay, Myo Nyunt, che nel piccolo villaggio ha saputo farsi rispettare grazie a una robusta determinazione e una notevole consapevolezza critica.
Irrawaddy mon amour porta su di sé i tratti del bel documentario derivato da un’esperienza di vita. La nota estetica dominante è quella del pedinamento, con un uso molto più contenuto dell’intervento da “para-intervista” in primo piano. La macchina da presa si pone a fianco dei suoi soggetti (o in lontananza per un campo medio, o dietro in un letterale pedinamento: in ogni caso con l’atteggiamento della “compagna di strada”), e solo qua e là si percepiscono vaghe tracce di reenactment per alcune inquadrature fisse su cavalletto. I filmmaker vivono insomma la realtà del luogo nei suoi ritmi e nelle sue giornate, restituendone tramite il cinema la loro esperienza diretta, tanto partecipe quanto discreta e per nulla invadente. Così facendo Irrawaddy mon amour evita i limiti del pamphlet diretto, del cinema militante per dare conto sì di un movimento civile, ma tramite gli strumenti del quotidiano. In questo modo il film acquista meriti anche strettamente informativi ma per mezzo di una narrazione accorta e profonda, molto centrata sul racconto dell’umano. Si apprende infatti che in quel villaggio birmano i gay sono accolti con un sorridente margine di tolleranza (e ovviamente anche con qualche sguardo perplesso, registrato in totale cattura di realtà), che raccolgono sostegno da monaci buddisti e che tuttavia continuano ad avere enormi problemi in famiglia e con l’esercito. Parallelamente Irrawaddy mon amour documenta l’organizzazione di un pionieristico matrimonio gay (uno dei primi in Birmania), a testimonianza di una sensibilità per i diritti civili che con maggiore o minore impatto ormai avvolge il pianeta a tutte le sue latitudini.
La macchina da presa “sparisce” sulle tracce della realtà che racconta, ma al tempo stesso continuiamo a sentire il respiro dei filmmaker, il loro desiderio di esserci e l’entusiasmo di partecipare alla realtà di un luogo. Oltre all’attenzione per l’umano e per il paesaggio, risulta molto interessante anche la messa in luce di una dimensione popolare estremamente sincretica, capace di coniugare un approccio spontaneo all’esistente (perché rifiutare i gay, se esistono?) con una dimensione mistico-rituale. Così il villaggio lontano dalle metropoli finisce per profilarsi come avamposto civile, non per sovrastruttura culturale, ma per semplice e diretta adesione alla realtà.
Irrawaddy mon amour non è cinema dei buoni esempi e buone intenzioni a tutti i costi, rifiuta l’evidenza del messaggio edificante e rimane invece addosso ai suoi personaggi e alle sue storie, traendo da esse, eventualmente, qualche messaggio da inviare. Vedremo dunque Aung San Suu Kyi che cosa riuscirà a fare adesso per il suo paese e il suo popolo, ivi compresi i cittadini LGBT. Vista la lunga permanenza della Birmania lontana da lidi democratici, forse è fantapolitica pensare che in tempi brevi tali diritti possano essere unanimemente riconosciuti. Ma c’è chi la democrazia l’ha scoperta da 70 anni, e tuttavia questo coraggio civile ancora non lo trova. Al confronto, la Birmania di oggi è già futuro.
Info
La scheda di Irrawaddy mon amour sul sito del Torino Film Festival.
- Genere: documentario
- Titolo originale: Irrawaddy mon amour
- Paese/Anno: Italia | 2015
- Regia: Andrea Zambelli, Nicola Grignani, Valeria Testagrossa
- Fotografia: Andrea Zambelli, Valeria Testagrossa
- Montaggio: Luca Gasparini
- Colonna sonora: Giulio Ciccia, Marco Offredi
- Produzione: Alkermes
- Durata: 53'