Ave, Cesare!

Ave, Cesare!

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Apertura della Berlinale 2016, divertissement cinefilo e metalinguistico, parata di stelle di oggi e, idealmente, di ieri: Ave, Cesare! (Hail, Caesar!) è un noir, un peplum, un musical, un western, una commedia romantica. È la fabbrica dei sogni osservata e raccontata dai fratelli Coen: arte e industria, idee e denaro, realtà e illusione.

Million Dollar Mermaid

Hollywood, 1951. Eddie Mannix non è solo a capo della produzione della Capitol Pictures, ma risolve in fretta i problemi più o meno gravi che coinvolgono le sue Star. Corteggiato dalla Lockheed Corporation, che gli assicurerebbe una posizione di prestigio, Mannix deve coprire la gravidanza della bella e bisbetica attrice DeeAnna Moran, rintuzzare le pressioni delle giornaliste gemelle Thora e Thessaly Thacker, assetate di pettegolezzi, e seguire i film in fase di realizzazione. Un giorno, dal set dell’ambizioso peplum Hail, Caesar!, sparisce misteriosamente l’attore protagonista Baird Whitlock… [sinossi]

Il meccanismo metalinguistico che ci trascina da un set all’altro, da un noir a un peplum, e poi una commedia sofisticata, un musical acquatico, un western e tutto quel che segue, non cannibalizza il ritratto divertito e divertente – a tratti spassoso – dell’industria dei sogni. La scrittura dei Coen, al pari della messa in scena, si conferma un ammirevole esempio di consapevolezza e autocontrollo, di senso della misura: lo spirito allegro, cinefilo e citazionista di Ave, Cesare! (Hail, Caesar!) non perde di vista la “macchina cinema”, l’industria, la concretezza che si cela dietro le coreografie ardite e i volti giovani e belli – a volte talentuosi, a volte meno. Ave, Cesare! è un film sul sogno e sulla finzione, sulla cartapesta che crea l’illusione, sulle dinamiche visibili e invisibili dei set, dello star system, dello schermo. Un film sul passato (non così glorioso) e sul presente (non così avvilente); sul cinema che copia se stesso, rinnovandosi; sulla centralità delle dinamiche produttive, ancor prima dell’autorialità, delle performance, della scrittura e degli ideali.

Raccontato con un sorriso ironico e beffardo, Ave, Cesare! ci costringe a ripensare alla Hollywood d’antan, alla benevola cristallizzazione di un’epoca in cui si produceva tanto, dal capolavoro alla routine. La ripetizione fino alla consunzione, ieri come oggi, era il lubrificante del motore hollywoodiano: gli Studios vampirizza(va)no generi e sottogeneri, star o presunte tali, sfornando l’ennesimo western, l’ennesimo noir, l’ennesimo musical. Degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, ma anche della New Hollywood, resta impressa nell’immaginario collettivo la punta dell’iceberg, della piramide produttiva e qualitativa. Quanti, ad esempio, avranno riconosciuto o riconosceranno nel personaggio di DeeAnna Moran (Scarlett Johansson) l’attrice/nuotatrice Esther Williams? [1] Ave, Cesare! omaggia e al tempo stesso mette sotto la giusta luce una delle tante Hollywood, una delle tante realtà produttive. Riesumando la Capitol Pictures di Barton Fink, i Coen non si limitano a ripescare i singing cowboy dei western di serie B o a deframmentare a piacimento gli stilemi del noir, ma lanciano amorevoli frecciatine allo star system, alla patina progressista dei divi, alla autorialità che finge di poter camminare con le proprie gambe. Tra una citazione e l’altra, in questo gioco a incastri, Ave, Cesare! regala alcune sequenze di fulminante comicità e concretezza: il confronto di Mannix con le autorità religiose e la questione della rappresentazione di Cristo; la riunione degli sceneggiatori comunisti nella villa sul mare a Malibù, tra Marx, Marcuse e stuzzichini; i quattro ceffoni presi da Baird Whitlock (George Clooney), attore di grido fulminato sulla strada degli ideali – alla Storia e alla Politica, non a caso, si accenna rapidamente.

Ave, Cesare! non è facile filologia, una raccolta di figurine o uno scherzo cinefilo. La definizione dello spazio scenico, al pari dello svelamento e della rottura della quarta parete, è un aspetto fondamentale di Ave, Cesare!, che inanella in un abbacinante crescendo la mise-en-scène della mise-en-scène: lo spazio soverchiante e claustrofobico del noir, dominato dal buio, dalla penombra e dalla pioggia (l’incipit con Mannix à la Marlowe); la totale apertura coi paesaggi panoramici e luminosi del film nel film Hail, Caesar! (La tunica o giù di lì); la veduta aerea dei teatri di posa, ovvero un campo totale sulla realtà e sulla sua rappresentazione, che sottolinea la natura magmatica e probabilmente inafferrabile della super-macchina hollywoodiana. Nel via vai di gente tra uno studio e l’altro, nella fiumana di tecnici e segretarie, comparse e nomi di prestigio, si celano i segreti di Hollywood: efficienza e immensi flop, kolossal e slavate produzioni di serie B, talenti e meteore, mestieranti e Autori, soldi e produttori. E poi i ceffoni, i tagli al montaggio, i ciak ripetuti fino allo sfinimento, le foto compromettenti da far sparire. Ave, Cesare! tratteggia una delle tante Hollywood possibili, sfiorando solo per un attimo Hollywood Babilonia. Ma quello potrebbe essere un altro film.

La centralità del personaggio di Mannix, prigioniero di un meccanismo che lui stesso tiene in piedi, ci ricorda dell’intercambiabilità degli ingranaggi hollywoodiani, star comprese. Oggi come ieri, le stelle invecchiano, si affievoliscono, spariscono. Sul viso e sul corpo di Scarlett Johansson riverbera il ricordo di Esther Williams, il brillante Alden Ehrenreich veste i panni di Kirby Grant, Clooney riecheggia Kirk Douglas e Channing Tatum è un Gene Kelly oversize – ottima performance. Oggi le star sono loro e Hollywood continua a girare (grazie ai soldi e anche ai nuovi Mannix).

Note
1. La Johansson in versione acquatica ricalca la Williams de La ninfa degli antipodi (Million Dollar Mermaid, 1952) di Mervyn LeRoy.
Info
La pagina Facebook di Ave, Cesare!
La scheda di Ave, Cesare! sul sito della Berlinale.
Il trailer italiano di Ave, Cesare!
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